In memoria di Alberto Mariantoni - Essere o apparire
La notizia della morte di Alberto mi ha raggiunto questa mattina. Le parole sono inadeguate per parlare dell’amico scomparso. Mi giunge da poco, da parte di un comune amico, un testo di Alberto che non conoscevo. Mi sembra una specie di suo testamento spirituale. E penso che in questo momento la migliore cosa sia pubblicarlo qui di seguito e riflettere su di esso intimamente, come non mai nel pubblicare testi di Alberto. Il miglior modo di ricordarlo sarà di continuare nel comune impegno.
Antonio Caracciolo
ESSERE O APPARIRE...
Il fatto di nascere, crescere, maturare ed, inevitabilmente, declinare e scomparire, non sempre ci concede il regalo e la gioia di avere potuto essere, esistere ed agire come avremmo avuto la capacità o come avremmo voluto.
La nostra esperienza terrena, infatti, è un continuo e costante tirocinio… E’ un duro apprendistato che è generalmente condizionato – per una certa frazione – dall’habitat naturale nel quale viviamo o da cui siamo scaturiti e, per il resto, influenzato, provocato e/o determinato da noi stessi.
Contrariamente all’opinione più diffusa, però, siamo noi stessi, in ultima analisi – e non il retroterra politico, economico, sociale e culturale di cui facciamo parte o siamo parte integrante – che circoscriviamo e fissiamo l’ampiezza, l’intensità e l’incisività del nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire. E questo, qualunque sia o possa essere la scala gerarchica delle nostre effettive qualità intellettive, delle nostre evidenti e spontanee sensibilità spirituali, delle nostre concrete e sostanziali capacità materiali.
Le responsabilità che spesso addossiamo o attribuiamo all’habitat naturale, a mio giudizio, sono soltanto dei comodi alibi, dietro ai quali, abbiamo quasi sempre tendenza a mimetizzare, dissimulare o tacere le nostre più indicibili abdicazioni, diserzioni e pusillanimità nei confronti della nostra stessa esistenza.
Il retroterra politico, economico, sociale e culturale, incomincia semmai a giocare un ruolo determinante o predominante nei confronti del nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire, soltanto nel momento in cui, noi stessi, accettiamo – direttamente o indirettamente, volontariamente o involontariamente, consapevolmente o inconsapevolmente – di mettere “tra parentesi” il significato ed il senso della nostra unicità, della nostra originalità e della nostra irripetibilità, affidando supinamente alla societas o a terze persone, il diritto/dovere di decidere e di disporre – indipendentemente da noi – del nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire. Questo, ancora una volta, a prescindere dal fatto che, in natura, esistono (e nessuno lo può negare!) degli uomini che sono chiaramente e manifestamente leader e degli uomini che sono (o preferiscono essere) nascostamente o palesemente gregari.
Il vero problema, dunque, che – nel corso di ogni esistenza - si pone a qualsiasi essere umano, non è quello di essere leader (o essere capace di esserlo, o possedere le qualità per diventarlo), né tanto meno quello di essere (o di scegliere di essere, o constare di non potere essere altro che) gregario. E’ semplicemente quello di scegliere e di decidere se si vuole essere ciò che si è, oppure se si preferisce apparire per ciò che non si è.
In sé per sé, infatti, essere leader o gregario nel contesto di una qualunque società umana, non è affatto una qualità, né un difetto. E’ semplicemente una funzione: quella che “madre natura” ha voluto assegnarci, sulla base dell’arcana ed indecifrabile combinazione di “doti” e/o di “tare” che ci ha voluto personalmente riservare.
Diciamo, per riassumere, che è un dato di fatto.
Insomma, siamo quello che siamo. E nulla e nessuno – fino a prova del contrario – potrà mai mutarci o trasformarci in ciò che non siamo, né potremo mai essere.
Possiamo, però, se lo desideriamo o lo vogliamo, affinare, migliorare o perfezionare la nostra
natura, a partire da due semplici atti di volontà:
tentare di conoscere sé stessi (ciò che i Greci definivano gnôti sauton ed i Latini, nosce te ipsum);
cercare di elevare il proprio livello fisico, psichico, spirituale e morale, a partire dalla propria specifica natura (ciò che i Greci riassumevano nel termine paidéia o “educazione/formazione globale dell’uomo”, ed i Latini condensavano nel significato enel senso del verbo educo, is, eduxi, eductum, educere che vuole dire, “trarre fuori, estrarre, far uscire, far sbocciare” le qualità che ognuno possiede, per meglio poterle perfezionare o valorizzare). Naturalmente, se non vogliamo o non riteniamo utile o opportuno cercare di affinarci, migliorarci o perfezionarci, possiamo:
tentare di conservare le nostre “doti”/”tare” iniziali, contemplando – impotenti e frustrati (o insensatamente appagati…) – il loro inevitabile degrado o deliquescenza, nel corso degli anni;
peggiorare le nostre “doti”/”tare” iniziali, ignorando volutamente o spensieratamente noi stessi, trascurandoci volutamente o lasciandoci apaticamente o flebilmente andare: vivendo, cioè, alla giornata; cedendo ai nostri istinti o impulsi animali più triviali; oppure, rassegnandoci passivamente a giocare il ruolo di semplici oggetti della volontà altrui.In altre parole, siamo quello che siamo, ma possiamo senz’altro diventare ciò che desideriamo o vorremmo essere, se ci limitiamo esclusivamente a conoscerci in profondità e ad investire, nelle possibilità che la natura ci ha assegnato o concesso, il massimo degli
sforzi che le nostre doti, capacità e/o abilità naturali ci permettono di spendere o di far valere.
E’ il concetto greco di agón, agônos (derivato di ágein, “condurre”: Erodoto – Storia delle
lotte fra Greci e Persiani 2, 91; 5, 102; Platone – Le Leggi 658a; Tucidide – Storia della
guerra del Peloponneso 3, 104; Aristofane d’Atene – Plutus 1163; Aristotele – Retorica 1, 2,
13; Plutarco – Demetrius 22) che nulla ha a che fare o a che vedere con l’odierna ed
incoerente nozione di “competizione”. Lo stesso dicasi, dei significati greci di agonismós
(lotta, combattimento) e di agonistés (chi lotta fisicamente o con l’intelletto) quando tentiamo
di paragonarli con quelli post-classici di “agonismo” e di “concorrente”.
Gli antichi Greci, infatti – che erano assolutamente coscienti che ogni uomo è unico, originale ed irripetibile (e, di conseguenza, complementare… – da cui la nozione aristotelica di zoon politikon o “animale politico”: quell’animale, cioè, che si affina, si migliora, si perfeziona – dunque, si civilizza – vivendo in armonia e collaborazione con gli altri, nel contesto della Polis o Città/Nazione/Stato), non tentavano mai di misurare sé stessi con i loro simili, per cercare vanamente di affermare un contraddittorio e paradossale “primato universale” delle capacità umane o un’innaturale e chimerico “parametro” di apprezzamento o di valutazione generale degli esseri viventi (un “primato” o un “parametro” fondato, per giunta, come
avviene da circa 1700 anni, sull’obbligatoria ed inevitabile sconfitta e consequenziale
umiliazione fisica, psichica o morale dell’altro!). Al contrario, prendendo a pretesto la
competizione con i loro simili, incrociavano reciprocamente le armi delle loro rispettive
qualità, predisposizioni e destrezze intellettuali, fisiche o morali, soprattutto per misurare il
limite contingente delle loro individuali e specifiche qualità o capacità.
http://civiumlibertas.blogspot.it/
La notizia della morte di Alberto mi ha raggiunto questa mattina. Le parole sono inadeguate per parlare dell’amico scomparso. Mi giunge da poco, da parte di un comune amico, un testo di Alberto che non conoscevo. Mi sembra una specie di suo testamento spirituale. E penso che in questo momento la migliore cosa sia pubblicarlo qui di seguito e riflettere su di esso intimamente, come non mai nel pubblicare testi di Alberto. Il miglior modo di ricordarlo sarà di continuare nel comune impegno.
Antonio Caracciolo
ESSERE O APPARIRE...
Il fatto di nascere, crescere, maturare ed, inevitabilmente, declinare e scomparire, non sempre ci concede il regalo e la gioia di avere potuto essere, esistere ed agire come avremmo avuto la capacità o come avremmo voluto.
La nostra esperienza terrena, infatti, è un continuo e costante tirocinio… E’ un duro apprendistato che è generalmente condizionato – per una certa frazione – dall’habitat naturale nel quale viviamo o da cui siamo scaturiti e, per il resto, influenzato, provocato e/o determinato da noi stessi.
Contrariamente all’opinione più diffusa, però, siamo noi stessi, in ultima analisi – e non il retroterra politico, economico, sociale e culturale di cui facciamo parte o siamo parte integrante – che circoscriviamo e fissiamo l’ampiezza, l’intensità e l’incisività del nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire. E questo, qualunque sia o possa essere la scala gerarchica delle nostre effettive qualità intellettive, delle nostre evidenti e spontanee sensibilità spirituali, delle nostre concrete e sostanziali capacità materiali.
Le responsabilità che spesso addossiamo o attribuiamo all’habitat naturale, a mio giudizio, sono soltanto dei comodi alibi, dietro ai quali, abbiamo quasi sempre tendenza a mimetizzare, dissimulare o tacere le nostre più indicibili abdicazioni, diserzioni e pusillanimità nei confronti della nostra stessa esistenza.
Il retroterra politico, economico, sociale e culturale, incomincia semmai a giocare un ruolo determinante o predominante nei confronti del nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire, soltanto nel momento in cui, noi stessi, accettiamo – direttamente o indirettamente, volontariamente o involontariamente, consapevolmente o inconsapevolmente – di mettere “tra parentesi” il significato ed il senso della nostra unicità, della nostra originalità e della nostra irripetibilità, affidando supinamente alla societas o a terze persone, il diritto/dovere di decidere e di disporre – indipendentemente da noi – del nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire. Questo, ancora una volta, a prescindere dal fatto che, in natura, esistono (e nessuno lo può negare!) degli uomini che sono chiaramente e manifestamente leader e degli uomini che sono (o preferiscono essere) nascostamente o palesemente gregari.
Il vero problema, dunque, che – nel corso di ogni esistenza - si pone a qualsiasi essere umano, non è quello di essere leader (o essere capace di esserlo, o possedere le qualità per diventarlo), né tanto meno quello di essere (o di scegliere di essere, o constare di non potere essere altro che) gregario. E’ semplicemente quello di scegliere e di decidere se si vuole essere ciò che si è, oppure se si preferisce apparire per ciò che non si è.
In sé per sé, infatti, essere leader o gregario nel contesto di una qualunque società umana, non è affatto una qualità, né un difetto. E’ semplicemente una funzione: quella che “madre natura” ha voluto assegnarci, sulla base dell’arcana ed indecifrabile combinazione di “doti” e/o di “tare” che ci ha voluto personalmente riservare.
Diciamo, per riassumere, che è un dato di fatto.
Insomma, siamo quello che siamo. E nulla e nessuno – fino a prova del contrario – potrà mai mutarci o trasformarci in ciò che non siamo, né potremo mai essere.
Possiamo, però, se lo desideriamo o lo vogliamo, affinare, migliorare o perfezionare la nostra
natura, a partire da due semplici atti di volontà:
tentare di conoscere sé stessi (ciò che i Greci definivano gnôti sauton ed i Latini, nosce te ipsum);
cercare di elevare il proprio livello fisico, psichico, spirituale e morale, a partire dalla propria specifica natura (ciò che i Greci riassumevano nel termine paidéia o “educazione/formazione globale dell’uomo”, ed i Latini condensavano nel significato enel senso del verbo educo, is, eduxi, eductum, educere che vuole dire, “trarre fuori, estrarre, far uscire, far sbocciare” le qualità che ognuno possiede, per meglio poterle perfezionare o valorizzare). Naturalmente, se non vogliamo o non riteniamo utile o opportuno cercare di affinarci, migliorarci o perfezionarci, possiamo:
tentare di conservare le nostre “doti”/”tare” iniziali, contemplando – impotenti e frustrati (o insensatamente appagati…) – il loro inevitabile degrado o deliquescenza, nel corso degli anni;
peggiorare le nostre “doti”/”tare” iniziali, ignorando volutamente o spensieratamente noi stessi, trascurandoci volutamente o lasciandoci apaticamente o flebilmente andare: vivendo, cioè, alla giornata; cedendo ai nostri istinti o impulsi animali più triviali; oppure, rassegnandoci passivamente a giocare il ruolo di semplici oggetti della volontà altrui.In altre parole, siamo quello che siamo, ma possiamo senz’altro diventare ciò che desideriamo o vorremmo essere, se ci limitiamo esclusivamente a conoscerci in profondità e ad investire, nelle possibilità che la natura ci ha assegnato o concesso, il massimo degli
sforzi che le nostre doti, capacità e/o abilità naturali ci permettono di spendere o di far valere.
E’ il concetto greco di agón, agônos (derivato di ágein, “condurre”: Erodoto – Storia delle
lotte fra Greci e Persiani 2, 91; 5, 102; Platone – Le Leggi 658a; Tucidide – Storia della
guerra del Peloponneso 3, 104; Aristofane d’Atene – Plutus 1163; Aristotele – Retorica 1, 2,
13; Plutarco – Demetrius 22) che nulla ha a che fare o a che vedere con l’odierna ed
incoerente nozione di “competizione”. Lo stesso dicasi, dei significati greci di agonismós
(lotta, combattimento) e di agonistés (chi lotta fisicamente o con l’intelletto) quando tentiamo
di paragonarli con quelli post-classici di “agonismo” e di “concorrente”.
Gli antichi Greci, infatti – che erano assolutamente coscienti che ogni uomo è unico, originale ed irripetibile (e, di conseguenza, complementare… – da cui la nozione aristotelica di zoon politikon o “animale politico”: quell’animale, cioè, che si affina, si migliora, si perfeziona – dunque, si civilizza – vivendo in armonia e collaborazione con gli altri, nel contesto della Polis o Città/Nazione/Stato), non tentavano mai di misurare sé stessi con i loro simili, per cercare vanamente di affermare un contraddittorio e paradossale “primato universale” delle capacità umane o un’innaturale e chimerico “parametro” di apprezzamento o di valutazione generale degli esseri viventi (un “primato” o un “parametro” fondato, per giunta, come
avviene da circa 1700 anni, sull’obbligatoria ed inevitabile sconfitta e consequenziale
umiliazione fisica, psichica o morale dell’altro!). Al contrario, prendendo a pretesto la
competizione con i loro simili, incrociavano reciprocamente le armi delle loro rispettive
qualità, predisposizioni e destrezze intellettuali, fisiche o morali, soprattutto per misurare il
limite contingente delle loro individuali e specifiche qualità o capacità.
http://civiumlibertas.blogspot.it/
Nessun commento:
Posta un commento