DI
DIEGO MAZZEI
– 12 NOVEMBRE
2012
PUBBLICATO IN: ARGENTINA
TRADUZIONE DI
TRADUZIONE DI
Non potevo non mettere questa intervista per quanto ammiro Umberto Eco, o meglio, quello che scrive e che lascia intendere a chi lo vuole intendere. Buona lettura e leggetevelo se vi capita: Migliori libri letti: Il Pendolo di Focault assolutamente da rileggere almeno tre volte, Il Nome della Rosa un paio, La Fiamma della Regina Loana.
Il Cimitero di Praga è il proseguo, con i nomi reali, del pendolo. Lo sviluppo direi ...
Milano, a tu per
tu con Umberto Eco, uno dei pensatori più brillanti del nostro tempo
MILANO –
Affrontare gli alti e bassi dell’autunno. Passare da una pioggerellina indolore
a un sole che scatena l’afa. Per le vie del centro di Milano bisogna schivare
quel caos civilizzato che è il traffico, nel quale uno sciame di moto e
biciclette si piazza davanti alle auto e ai vecchi tram. Al centro della scena l’imponenza
gotica del Duomo, nella piazza e nelle adiacenze del quale si può rimanere
intrappolati da un vortice di macchinette fotografiche giapponesi, da un gruppo
di pensionati svedesi o da un’effimero corteo di protesta dei dipendenti di una
catena di fast food, l’unico incidente che altera il ritmo consumista della
galleria Vittorio Emanuele II.
Da piazza del Duomo, attraverso Via Dante, zona pedonale
piena di negozi e caffè, si giunge al Castello Sforzesco, fortezza che i
Visconti costruirono nel XIV secolo e che oggi ospita vari musei e perfino un
evento di moda. Con un occhio alla storia, un antico edificio dagli interni
restaurati esibisce un citofono. “U.E.” dice
il campanello, e la voce che risponde fa da guida: “Secondo piano a sinistra”. Ad accogliere, dietro un sorriso, c’è
la stessa voce aspra. Umberto Eco mi precede e mi chiede in che lingua vogliamo
parlare. “Inglese o italiano? Il mio
spagnolo non è buono”, si scusa. Indossa un maglione color ruggine; sotto
il maglione, una camicia bianca a righe e delle bretelle che sostengono un paio
di blue jeans; calzini bordeaux, mocassini neri e un paio di occhiali grandi
che hanno letto voracemente per decenni.
Si è di nuovo lasciato la barba (l’aveva tagliata perché
diceva che nelle foto sembrava Gengis Khan arrabbiato). Tra le labbra un
sigarino spento. Ha smesso otto anni fa di fumare ed è l’unico modo che ha
trovato per calmare la nostalgia del vizio. Si lamenta un po’. Il dolore del
nervo sciatico lo disturba in continuazione. Ma ad 80 anni è ancora vitale e
iperattivo.
“Mi perdoni se la ricevo qui, ma abbiamo la casa un po’ occupata con i preparativi di una festa. Io e mia moglie facciamo 50 anni di matrimonio”. La moglie è Renate Ramge, tedesca, professoressa di Comunicazione visiva, e si conobbero quando lei lavorava presso la casa editrice Bompiani, che ancora oggi pubblica i libri del marito. Questo luogo è un paradiso per qualsiasi bibliofilo. Metà della casa è adibita a studio di Eco. Un corridoio, un altro corridoio… tutto tappezzato di libri. Librerie bianche, molto lunghe, con migliaia e migliaia di libri. Alcune scale per arrivare ai ripiani più alti. E la zona lavoro, ancora con librerie su librerie. E altre scale. “Sono all’incirca 30.000 libri. Poi, tra la casa in campagna e il mio ufficio a Bologna arriveranno a 50.000”.
“Mi perdoni se la ricevo qui, ma abbiamo la casa un po’ occupata con i preparativi di una festa. Io e mia moglie facciamo 50 anni di matrimonio”. La moglie è Renate Ramge, tedesca, professoressa di Comunicazione visiva, e si conobbero quando lei lavorava presso la casa editrice Bompiani, che ancora oggi pubblica i libri del marito. Questo luogo è un paradiso per qualsiasi bibliofilo. Metà della casa è adibita a studio di Eco. Un corridoio, un altro corridoio… tutto tappezzato di libri. Librerie bianche, molto lunghe, con migliaia e migliaia di libri. Alcune scale per arrivare ai ripiani più alti. E la zona lavoro, ancora con librerie su librerie. E altre scale. “Sono all’incirca 30.000 libri. Poi, tra la casa in campagna e il mio ufficio a Bologna arriveranno a 50.000”.
A Bologna c’è l’università dove è ancora titolare della
cattedra di Semiotica, pur non insegnando più. Eco è stato un accademico per
tutta la vita. Pubblicò il suo primo saggio nel 1956, su San Tommaso d’Aquino.
Il suo primo lavoro fu in televisione, quando questa era agli albori. Si era
già laureato in filosofia all’Università di Torino, con una tesi sull’estetica
medievale. Successivamente entrò nel mondo dell’editoria, continuò a studiare,
a fare ricerca. Iniziò ad insegnare e non smise più. Alla metà della sua vita
si decise a scrivere un romanzo che pensava sarebbe finito nell’archivio
dell’Università e che invece diventò un classico che ancora oggi si continua a
vendere molto in tutto il mondo: Il nome della rosa, pubblicato nel 1980.
“Sono sicuro di una cosa. Se l’avessi scritto dieci anni
prima o dieci anni dopo, nessuno se ne sarebbe ricordato. Infatti ci sono
momenti in cui un determinato libro risponde a determinati quesiti. Tali
quesiti non sarebbero esistiti dieci anni prima o dopo. Quali sono i quesiti?
Non sono in grado di dirlo. Ed il mistero è duplice, nel senso che ci sono due
dimensioni. Una è che il libro si è fatto pubblicità grazie al passaparola
della gente. E l’altra è che questo fenomeno si è verificato in Italia, in
Australia, in Messico, in India… in tutti i paesi. Non riesco a spiegare questo
fenomeno, ma posso guardare attraverso gli occhi dei traduttori. Un critico
italiano mio amico ha detto che i libri dei suoi traduttori sono scritti meglio
dei suoi”.
Nonostante il
luogo comune del traduttore-traditore?
“Io credo nella
traduzione. Ho addirittura scritto un libro sulla traduzione. Credo che
l’autore debba lavorare molto con il traduttore. Compreso il traduttore
delle lingue che non conosce. Lavoro molto bene con la mia traduttrice russa o
con il mio traduttore giapponese. Quali sono i problemi che ci sono e che non
riescono a risolvere? Naturalmente non ho potuto controllare il mio traduttore
coreano. O quello cinese. Ma per le lingue più importanti, appena scrivo un
libro mando a tutti un dossier. Viene inviato il testo intero integrale, con
delucidazioni, spiegazioni, commenti, che facciano emergere come determinate
cose nella loro lingua non si possono dire… Il Cimitero di Praga (la sua ultima opera, pubblicata nel
2010) fu inviata dall’editore italiano a tutti gli editori stranieri appena
consegnai il manoscritto, prima che fosse stampato in Italia.
I traduttori sono lettori favolosi, perché controllano dieci volte ogni parola. Qualcuno ha trovato un errore, una contraddizione. Ieri mattina ho ricevuto dieci e-mail dai traduttori. Uno aveva inviato una copia a tutti riguardo ad una correzione. E con ciascuno di essi il libro cambiava. Erano piccoli cambiamenti. Ma i traduttori sono persone tremende. Uno dice: “Parla di questa via di Parigi nel 1860, ma io ho controllato e questa via si chiama così solo dal 1865”. Cose di stile.”
I traduttori sono lettori favolosi, perché controllano dieci volte ogni parola. Qualcuno ha trovato un errore, una contraddizione. Ieri mattina ho ricevuto dieci e-mail dai traduttori. Uno aveva inviato una copia a tutti riguardo ad una correzione. E con ciascuno di essi il libro cambiava. Erano piccoli cambiamenti. Ma i traduttori sono persone tremende. Uno dice: “Parla di questa via di Parigi nel 1860, ma io ho controllato e questa via si chiama così solo dal 1865”. Cose di stile.”
Eco lavora compulsivamente e con metodo, anche a 80 anni.
Per i romanzi di solito si prende un po’ di tempo. Ha impiegato otto anni per
scrivere Il pendolo di Foucault; sei anni per gli altri. Ossessione?
“Sì, perché voglio far bene il lavoro. Potrei costruire una sedia al giorno. Ma
preferisco costruire solo una sedia a settimana. Perché per me il tempo più
bello è quello passato a scrivere un libro. E perché devo preoccuparmi, quando
invece è la cosa più bella? Cercare la documentazione, notare una cosa e
fermarsi. Tutto questo è la parte più bella. Quando il libro è finito non mi
importa più nulla. Ma i poveri disgraziati che fanno un libro l’anno non hanno
questo piacere”.
Rilegge il libro
che ha scritto?
“Sì, ma è tutta un’altra cosa. Quando dico “la bella
esperienza di costruire un libro”, voglio dire che l’esperienza bella per una
madre è quella di stare nove mesi incinta, non il parto. Se dovesse partorire
tutti i giorni sarebbe tremendo.”
Lei ha scritto in Confessioni di un giovane
romanziere che per scrivere un romanzo di successo bisogna tenere alcune
cose segrete…
“Voglio dire che nel periodo in cui scrivo non dico a
nessuno che cosa sto facendo. È un piacere mio. Lo coltivo per me”.
Non lo sa neanche
la famiglia?
“No, nessuno. Sta di fatto che una volta ho detto che il
segreto del successo è non apparire mai in televisione.”
Eco è nato e
cresciuto ad Alessandria (Piemonte), ma da molti anni la sua base è a
Milano. In questa casa. In questo studio. Ci
sono due scrivanie, una di fianco all’altra. Su una lavora la mattina;
sull’altra la sera. Su ognuna c’è un computer. Sulle scrivanie si accumulano
libri, buste, fogli, due scatole di sigarini Café Crème, una carta d’imbarco a
nome di Umberto Giuseppe Eco, una tazzina di caffè già bevuto, due telefoni,
una lente d’ingrandimento, un computer portatile, una lampada a stelo che
illumina le carte. Più in là un’altra scrivania è occupata da un’assistente.
Ma senza dubbio regna il silenzio, anche la presenza delle
casse fa pensare che ogni tanto ci sarà della musica. “Fondamentalmente amo
ascoltare musica classica. Ascolto anche quella musica che gli americani
chiamano “nostalgica”, dagli anni ‘20 ai ‘30. Quando lavoro sintonizzo la radio
su una stazione di musica classica o su quella che trasmette Frank Sinatra,
Bing Crosby, le canzoni della mia infanzia. Della musica moderna, le dirò, dopo
i Beatles non ho seguito molto l’evoluzione del rock, etc. E suono il flauto
dolce, composizioni di Bach, Telemann, musica classica”, dice.
Ah, la tecnologia… non usa Twitter. L’account con il suo nome è falso. Ha un cellulare che utilizza solo per chiamare i taxi. “Senza diventare un cretino che cammina per strada parlando da solo. Siamo ossessionati dai mezzi di comunicazione che di certo sono uno dei mali del nostro tempo. Sono un male, come un tempo lo erano le epidemie. La peste. Come molta gente riuscì a sopravvivere alla peste, molti potranno sopravvivere anche ai mezzi di comunicazione”.
Ah, la tecnologia… non usa Twitter. L’account con il suo nome è falso. Ha un cellulare che utilizza solo per chiamare i taxi. “Senza diventare un cretino che cammina per strada parlando da solo. Siamo ossessionati dai mezzi di comunicazione che di certo sono uno dei mali del nostro tempo. Sono un male, come un tempo lo erano le epidemie. La peste. Come molta gente riuscì a sopravvivere alla peste, molti potranno sopravvivere anche ai mezzi di comunicazione”.
Con tanti stimoli,
internet, la televisione, i social network, quando troviamo il tempo per
leggere?
“Anche qui c’è una
selezione naturale. Chi non trova tempo per leggere, peggio per lui. E
questo vale anche per il meccanico di automobili. Io uso internet e ciò non mi
impedisce di leggere. Mi piace moltissimo guardare la televisione. Ma non è che
passo 24 ore a guardare la televisione. L’alcol è molto contestato. Ma ci sono
gli alcolizzati e c’è chi beve un whisky dopo cena. Ci sono infiniti stimoli.
Lo vedo con i miei nipotini. Sono portati a leggere meno libri perché vedono
molti film. É educativo sia leggere un
buon libro che vedere un buon film. Sono
entrambi modi di crescere e di fare esperienza. Naturalmente dipende
dall’educazione: un bambino che la madre lascia davanti alla televisione per
poter uscire, povero lui. Esistono bambini resi stupidi dai genitori. Ma una
persona che ha interessi e curiosità può sopravvivere all’eccesso di
comunicazione. Pensi alla gente che sta sempre al cellulare. Io lo tengo sempre
con me e vivo molto bene. Si può sopravvivere.”
Le nuove
tecnologie cambiano continuamente, ma il libro come oggetto rimane…
“Sì, io non sono pessimista. La settimana scorsa avevo
perso questa – una chiavetta USB – e sarebbero potuti scomparire tutti i miei
lavori degli ultimi trent’anni. Ero disperato, ma poi l’ho ritrovata. È
facilissimo perdere questa chiavetta, ma è molto difficile perdere un’intera
biblioteca. Il libro dà una garanzia di sopravvivenza. Può bastare un blackout
per distruggere tutta la mia biblioteca elettronica. Ma io colleziono libri
antichi. Qui ci sono libri di cinquecento anni che sembrano stampati ieri, di
una tale freschezza… Questo è il vantaggio del libro, dà una maggior garanzia
di sopravvivenza. Naturalmente è meno trasportabile. Preferisco che il mio
nipotino impari il latino sullo schermo di un iPad prima di ammalarsi di
scoliosi per essersi caricato di libri. Perché caricarsi sulle spalle un’intera
biblioteca se la si può vedere lì dentro? O se cerco un certo libro, è più
facile cercarlo su internet. Però, oltre a questo, il libro ha una maggior
possibilità di sopravvivenza. E poi c’è l’atto fisico, la questione affettiva,
il poter toccare l’oggetto, poter prendere appunti. Cercare in cantina il mio Pinocchio di
quando avevo 8 anni, trovo tutti i segni che ci feci sopra, mentre non c’è
alcun rapporto sentimentale con la versione digitale. Voglio dire che
l’invenzione dell’automobile non ha eliminato la bicicletta. L’invenzione della
fotografia non ha eliminato la pittura. Al massimo ha eliminato il ritratto.
Non ci sono più pittori che fanno ritratti. Picasso è venuto dopo l’invenzione
della fotografia. Le due cose possono coesistere. In futuro avremo sicuramente
una maggior quantità di informazioni tramite i mezzi di comunicazione
elettronici. È possibile che le biblioteche personali degli appassionati si
riducano. Tanto meglio. Costa meno. Tuttavia, non solo chi pensa alla morte del
libro ma anche chi li colleziona, dirà “spero che non ci siano più libri”,
cosi’ questi varranno di più nei negozi d’antiquariato.”
Accompagna ogni
frase con un gesto. E la conclude con un sorriso sincero e malizioso. Rimugina
sulle domande che non lo convincono. Fruga nell’ironia e ne esce fuori a passo
da furfante. Come si definisce come romanziere? Qui la risposta è
sarcastica. “Quando mi chiedono come mi chiamo rispondo: io non mi chiamo, sono
gli altri che mi chiamano. Non sono io che mi definisco, sono gli altri. Per un
periodo ho accettato la definizione di scrittore postmoderno. Non so cosa
significhi esattamente postmoderno, ma nei miei scritti ci sono certi aspetti
del postmoderno – la meta-fiction, la finzione nella finzione. Nei miei romanzi
ci sono sempre due o tre livelli, inclusa anche la voce del narratore che parla
di ciò che sta raccontando. L’ironia. Non l’ironia di primo livello, ma
l’ironia intertestuale. Citare certe opere. Tutti questi aspetti indefiniti
possono farmi rientrare non nel neorealismo del dopoguerra, ma nel
postmodernismo. Non sono nemmeno un narratore storico. Il Pendolo di
Foucault, La misteriosa fiamma della regina Loana si guardano con i nostri
stessi occhi. Ma certamente sono sempre presenti elementi del genere
dell’evocazione della memoria. Mi risulta molto difficile collocarmi. Perché
non sono io a chiamarmi, ma sono gli altri”.
Per chi si deve
scrivere? Si deve scrivere per se stessi? Faulkner diceva che se una persona non capisce dopo aver letto due o
tre volte il testo, deve leggerlo quattro volte.
“Quelli che dicono che scrivono per se stessi si
sbagliano. Si scrive per gli altri. Si scrive come atto di comunicazione. Non
si scrive per i lettori che esistono, ma per i lettori che non ci sono ancora e
che si vogliono formare, costruire. Ci sono lettori che leggono dieci pagine e
si annoiano. Non ci sposiamo tutti con la stessa donna. Non siamo obbligati ad
amare tutti la stessa cosa. Si scrive per un lettore ideale e un libro è una macchina
per costruire il lettore. Si pensi a come iniziano le favole: c’era una volta.
Questo è già un modo di costruire un lettore. Dice: tu devi essere un bambino o
un adulto che finge di essere un bambino. Sono già segnali sul tipo di lettore
che si vuole. Ci sono molti libri che ho letto in vita mia e che ho abbandonato
alla quinta pagina. Anni dopo ho ripreso un capitolo. E alla fine sono
diventato quello che quel libro voleva che fossi. Questo è stato per me molto
importante. Con un libro puo’ non scattare il colpo di fulmine. Il coup de
foudre. Può essere un innamoramento lento.”
Molta gente crede che i personaggi siano un riflesso dell’autore.
Molta gente crede che i personaggi siano un riflesso dell’autore.
“Il lettore pensa che i libri siano sempre
autobiografici. In un romanzo racconto di un uomo che si innamora di una suora,
e il lettore debole si immagina che nella mia vita anch’io mi sia innamorato di
una suora. Nel caso del Cimitero di Praga (NdR: opera criticata da
settori vicini sia al Vaticano sia alla comunità ebraica) il personaggio si
presenta in modo così negativo che al lettore sembra impossibile. Una delle
dimostrazioni più interessanti l’ho avuta oggi, scoprendo su internet che sono
i fascisti a sferrarmi gli attacchi più forti. Dicono che questo è ciò che
sostiene la comunità ebraica internazionale riguardo ai Protocolli dei
Savi di Sion, che è stato scritto da un ebreo, eccetera.“
Oggi si pubblicano moltissimi libri. Rimarranno solo
quelli scritti per l’eternità?
“Vede, certamente
il povero che entra in una libreria, vedendo una tale quantità di libri, come
fa a scegliere? Ci sono due possibilità. La prima: se si cerca un libro
importante si finisce col trovarlo. La
seconda: non tutti i libri sono importanti per tutti. Un libro può essere
importante per lei, un altro lo è per me. Non è necessario pensare alla
letteratura come a una rivelazione divina e che tutto il mondo attendesse solo
l’Ulisse di Joyce. Il mondo potrebbe vivere anche senza l’Ulisse di
Joyce. Una persona potrebbe aver letto un altro libro che le è parso ugualmente
formativo e importante. Inoltre capita, guardando alla mia storia personale –
ma credo che riguardi la storia di tutti – che per me sono stati importanti
libri che non valgono nulla, ma in quel momento sono stati formativi, mi hanno
fatto pensare, hanno alimentato la mia fantasia. Non sono libri importanti per
tutti. Ma lo sono stati per la mia esperienza. E può darsi che nell’immensa
quantità di libri presenti nelle librerie si produca una sorta di selezione
naturale alla Darwin, dove muoiono quelli che non vale la pena che vivano.”
Cos’è più
importante, insegnare a scrivere o a leggere?
“Non si insegna a scrivere. Tutti quelli che danno
lezioni per imparare a scrivere sono
commercianti che vogliono solo sottrarre denaro ai giovani, che pagano per
diventare scrittori. Invece si insegna a leggere. I grandi scrittori sono sempre stati grandi lettori. Così come i
grandi pittori sono persone che guardano i quadri degli altri. Così si
apprende. Solo entrando nel laboratorio si può sapere come si fa. E ci sono
alcuni saggi critici – penso a quello di Proust su Flaubert – che servono per
vedere come lui legge, come lui analizza il modo di scrivere di Flaubert.
Leggere, leggere. E non solo per sapere come stanno le cose. Leggere per capire
com’è costruito il testo. Quello che si puo’ insegnare è come scrivere articoli
di giornale, e come una notizia si può dare in tre righe invece di nove.”
Come vede
l’evoluzione della lingua? Sembra che il cellulare e il computer abbiano
cambiato la forma di comunicare.
“Le lingue cambiano in continuazione. Dante, che scrisse
un breve trattato sulle lingue [De vulgari eloquentia,1305, NdT], affermò: “se
i più antichi abitanti di Pavia risorgessero ora, parlerebbero un linguaggio
diverso o dissimile da quello dei moderni Pavesi”. Già si aveva la netta sensazione
che le lingue cambiano. E sul loro mutamento influiscono infiniti fattori
economici, politici, eccetera. Sono molto attento al fatto che i nuovi media
possano influire immediatamente sul cambiamento delle lingue. È il caso del
telegramma. Il telegramma è stato inventato 80 anni fa. E la gente scriveva:
arrivo domani. Stop. Ma le persone scrivevano così solo il telegramma. È vero
che il giovane che usa il cellulare non legge, ma è anche vero che anche prima
del cellulare ciò non accadeva. Non credo in nell’influsso immediato del mezzo
tecnologico sulla lingua. Per esempio la televisione in Italia ha avuto un
influsso molto positivo sul cambiamento della lingua, perchè dopo la guerra due
terzi degli italiani parlavano il dialetto. La televisione ha insegnato a tutti
un livello medio di italiano. Non è l’italiano di Boccaccio, ma è un buon
italiano, simile a quello a cui siamo abituati. In questo caso c’è stato
effettivamente un influsso della tecnologia sulla lingua. Però è accaduto in
venti, trent’anni, lentamente. Esiste un influsso, ma agisce lentamente. E non
è che tutti i mezzi influiscono immediatamente. Chiaramente l’e-mail, con i
suoi contenuti più brevi, sta uccidendo l’arte della corrispondenza. Però lei
ha affermato dieci minuti fa che ci sono molti libri nelle librerie, quindi
l’e-mail non ha provocato la fine della scrittura. La maggior parte di quei
libri saranno anche pessimi, ma almeno sono scritti in un italiano
accettabile.”
E si scrive di
meno a mano.
“Sì, hanno ucciso l’arte della calligrafia e chi lo sa,
magari torna, come sono ritornati in voga certi sport come l’equitazione: non
si va a cavallo per ragioni pratiche, ma si va per il piacere di cavalcare.”
Nella parte opposta della casa, cui si accede
attraversando una galleria circolare piena di vasi di fiori, c’è un soggiorno
dove predominano le ombre, con un pianoforte, alcuni quadri e il balcone con
vista sul grande castello. Eco è con Renate, sua moglie, la pelle intatta, i
capelli grigi raccolti. Eco soffre di fotofobia, o almeno è quello che dice
mostrando il suo fastidio per il flash del fotografo. “Siete come i dentisti,
dicono che manca un minuto ma poi ti fanno soffrire.”
Lei una volta ha
detto che l’infanzia è un periodo triste.
“Personalmente sento che durante l’infanzia ci si sente
incompleti.”
Ma ha un brutto
ricordo dell’infanzia?
“No, ho avuto un’infanzia molto felice.”
Non sarà che la tristezza dell’infanzia è un suo ricordo?
“No, durante
l’infanzia ci sono grandi tristezze. Ci possono essere tristezze infinite. Non
si è né carne né pesce. Ho dei bellissimi ricordi della mia infanzia. Uno dei
ricordi più belli è il periodo della guerra.”
Come si vive
durante la guerra?
“Molto bene! Uno
scappa da un posto all’altro per sopravvivere, mangiando poco. Una
bellissima esperienza… (ride). No, ma a parte questo, tutti i ricordi
dell’infanzia sono dolci. Le ho detto che durante l’infanzia ci sono grandi
tristezze, ma ricordare l’infanzia è dolcissimo. Quello a cui mi riferivo erano
le notti passate nei rifugi mentre cadevano le bombe. Mi incontravo con gli
altri bambini. Trovavamo normali i
bombardamenti.”
Cosa pensa della
nostalgia? È nostalgico?
“Sì,
paradossalmente la vita serve solo per ricordare il passato e per produrlo.”
E come si rapporta
con l’ottimismo?
“Non so molto bene che cosa siano l’ottimismo e il
pessimismo, però accetto la definizione di Emmanuel Mounier, un filosofo
francese che parlava di un optimisme tragique. Lui era un ottimista
tragico. Che tradotto significa che però la vita è una merda.” (ride)
Lei ha detto che
chi è sempre felice è un cretino.
“Sì, esatto.”
Ma che esistono brevi momenti di felicità.
Ma che esistono brevi momenti di felicità.
“Momenti di felicità, e la possibilità di migliorare le
cose. Sono d’accordo sul fatto che il mondo sia stato costruito da un demiurgo
cretino, Dio ha fatto un immenso pasticcio, ma in mezzo a tutto questo ci sono
cose belle, come la nascita di un figlio, la stesura di un libro, la fine di
un’intervista…”
UN GIORNO NELLA
VITA DI…
“La mia è una vita d’inferno, perché quando uno inizia a
fare interviste lavora tre volte tanto. Solo la gestione dei libri già scritti
e il rapporto con traduttori ed editori richiedono un giorno intero. Sono
tradotti in quaranta lingue, e se quattro giornali in ogni paese chiedono di
fare interviste…. C’è la gente che ti scrive, che ti invita. Ora mi sto
dedicando alle mie cose. Sto riunendo tutti i miei scritti sul Medioevo: 1200
pagine. Dal 1952 ad oggi. Ci sono i libri illustrati. Ne sto scrivendo uno
sulla storia della bellezza. Se devo tenere tre o quattro conferenze l’anno, devo scrivere tre o quattro saggi di 30
pagine. Si tratta pur sempre di un altro libro di 150 pagine. Ho sempre più
lavoro.”
E oltre al lavoro?
“Niente.”
Non le piace
uscire a camminare!
“No. Una volta mi feci visitare da un medico
specializzato in trapianti di fegato. Non ha voluto che lo pagassi. Allora mi
misi a pensare a cosa potergli regalare, magari un libro. Ma non gli
interessavano i libri. Gli interessavano solo i fegati. Io sono un po’ così.”
(pubblicato il 21.10.2012)
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