"THE END"

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giovedì 14 giugno 2012

Il più grande problema dell’economia mondiale

Il problema sociale a cui siamo di fronte oggi sarà un esempio da ricordare nei tempi per gli effetti devastanti che ha avuto nei paesi occidentali, luoghi che hanno visto nel giro di una generazione una fuga di cervelli, di capitali e di lavoro a cui nessuno aveva mai assistito. Una parte della popolazione, la parte che sostiene la piramide è stanca, e non per invidia nei confronti della ricchezza, ma peggio ancora perché è cosciente che tutti gli sforzi sono indirizzati non allo sviluppo della civiltà per come lo conosciamo ma piuttosto all’arricchimento esagerato di una piccola frazione di cittadini e così facendo non si partecipa più ai vantaggi dell’azione collettiva, motivo questo che ha tenuto in piedi il nostro sistema molto tempo, oggi è venuto a mancare ... vi lascio ora a questo articolo che fornisce una buona chiave di lettura e un consiglio alle famiglie. Le grandi famiglie che dominano il mondo qui la lista, evidentemente meno intelligenti dei loro antenati, o con un'obiettivo ben preciso a loro svantaggio?


Il più grande problema dell’economia mondiale (praticamente quella occidentale!) è che tanta ricchezza è concentrata nelle mani di poche persone, per questo, almeno negli Stati Uniti, si è scatenata una protesta verso l’un per cento di paperoni. Tant'è che i movimenti di protesta contro la grande finanza internazionale hanno creato, almeno negli Stati Uniti, uno slogan molto significativo e fortunato: “Noi siamo il 99 per cento”, a indicare che una minoranza molto ristretta di persone avrebbe un potere decisionale sproporzionato e un’uguale sproporzione nei redditi e nei guadagni. 
Il settimanale economico britannico Economist ha messo insieme molte ricerche e sondaggi per capire da chi sia realmente composto questo uno per cento dei più ricchi, chiedendosi: da dove vengono i loro soldi, che lavoro fanno, per chi votano.
Se si definisce l’uno per cento in base al reddito, il reddito medio familiare di questa categoria di persone era di 1,2 milioni di dollari (928.000 euro) nel 2008 basandosi sulle dichiarazioni fiscali. Un numero ristretto dei super-ricchi alzava però la media, per cui erano sufficienti 380.000 dollari l’anno per entrare a far parte dell’uno per cento. Se invece si considera il patrimonio complessivo, e non solo le entrate annuali, nel 2009 rientravano nell’uno per cento tutti i patrimoni superiori a 6,9 milioni di dollari (5,3 milioni di euro), secondo la Federal Reserve. Rispetto al 2007, il limite si era abbassato di più di 1,7 milioni di dollari. Per quanto riguarda la composizione del reddito, solo una metà delle entrate dell’uno per cento proviene dagli stipendi, mentre un quarto dai guadagni dalle attività e il restante quarto da rendite, dividendi e interessi.
Fino a qualche anno fa le professioni più remunerate erano quelle relative al settore medico e a quello legale anche se stava aumentando l’importanza delle professioni finanziarie. Oggi i grandi manager delle società private sono sempre una parte importante delle professioni rappresentate nell’uno per cento più ricco, ma hanno smesso di essere la più importante come in passato, sostituiti da chi lavora in banche di investimento, gestisce hedge fund o lavora come legale per le grandi società. Nel 2009, i 25 hedge fund più ricchi hanno raccolto più di 25 miliardi di dollari, circa sei volte il guadagno di tutti i manager delle 500 principali società quotate alla borsa di New York messi insieme (dall’inizio della crisi finanziaria, gli hedge fund hanno registrato perdite pesanti: una media del -9 per cento nel 2011). [The Economist]

Un gruppo stabile e chiuso
Da un anno all’altro, negli Stati Uniti, i membri dell’uno per cento tendono ad avere poco ricambio: circa tre quarti restano gli stessi tra un anno e l’altro. Il ricambio avviene più nel lungo periodo, anche se lento e senza scossoni: nell’arco di dieci anni, chi faceva parte dell’uno per cento è ancora parte del 10 per cento più ricco. Questa continuità è favorita da famiglie stabili e da alti livelli di istruzione. Il gruppo tende a essere omogeneo anche perché i ricchi tendono a sposarsi tra loro: tra le coppie sposate che fanno parte dell’uno per cento, la percentuale di mariti o mogli che lavora nel settore legale o finanziario è in costante aumento e oggi è dell’8,8 per cento circa.
Per quanto riguarda la politica, tutti o quasi i più ricchi si interessano di politica. Secondo una ricerca della Northwestern University, la percentuale di chi vota è altissima, il 68 per cento fa donazioni per le campagne elettorali, quasi la metà è entrato in contatto con un membro del parlamento statunitense e un quinto ha aiutato attivamente a raccogliere fondi per un candidato. D’altra parte, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti il candidato favorito alle primarie repubblicane, Mitt Romney, proviene dal mondo dell’alta finanza, dato che la sua fortuna personale (circa 200 milioni di dollari) viene per gran parte dal suo lavoro di manager per una delle più grandi società di private equity degli Stati Uniti. 
Parafrasi da un commento di Joseph Stiglitz
Cominciamo definendo la premessa di base: le disuguaglianze tra ricchi e poveri si stanno ampliando da decenni. Siamo tutti consapevoli del fatto. Non ripercorrerò qui tutte le prove, se non per dire che il divario tra l’un per cento e il novantanove per cento è vasto se considerato in termini di reddito annuo e ancora più vasto se considerato il termini di ricchezza, cioè in termini di capitale accumulato e di altre attività. 
Si consideri la famiglia Walton: i sei eredi dell’impero Walmart possiedono una ricchezza complessiva di circa 90 miliardi di dollari, che equivale alla ricchezza del 30% più in basso nella società statunitense. (Molti, giù in fondo, hanno un patrimonio netto pari a zero, o negativo, specialmente dopo il crollo del settore immobiliare). Warren Buffett è stato corretto nel descrivere la cosa quando ha affermato: “E’ in corso una guerra di classe da vent’anni e la mia classe ha vinto.” 
Dunque no: c’è poco da discutere sul fatto fondamentale dell’allargamento della disuguaglianza. Il dibattito è sul suo significato. A volte si ascolta la tesi che la disuguaglianza è fondamentalmente una cosa buona: quando i ricchi si avvantaggiano maggiormente, lo stesso vale per tutti gli altri. Questa tesi è falsa: mentre i ricchi si sono fatti più ricchi, la maggior parte delle persone (e non soltanto quelli al fondo della scala sociale) si è impoverita e non è stata in grado di conservare il proprio tenore di vita. Un tipico lavoratore maschio a tempo pieno riceve oggi lo stesso reddito che riceveva trent'anni fa. 
Per altri, la crescita della disuguaglianza, spesso sollecita semplicemente a un appello alla giustizia: perché così pochi devono avere così tanto quando così tanti hanno così poco? Non è difficile capire perché, in un’età dominata dal mercato in cui la giustizia stessa è una merce da comprare e vendere, alcuni scarterebbero l’argomento come pio sentimentalismo. Ma mettiamo i sentimenti da parte.
Ci sono buoni motivi perché i paperoni dovrebbero preoccuparsi comunque della disuguaglianza, anche pensando soltanto a sé stessi. I ricchi non esistono in un vuoto. Hanno bisogno di una società funzionante intorno a loro per conservare la propria posizione. Società vastamente disuguali non funzionano in modo efficiente e le loro economie non sono né stabili né sostenibili. Le prove dalla storia e da tutto il mondo moderno sono inequivoche: si arriva a un punto in cui la disuguaglianza entra in una spirale di malfunzionamento economico per l’intera società, e quando ciò accade anche i ricchi pagano un prezzo considerevole. Permettetemi di esporre alcuni dei motivi. 



Il problema dei consumi
Quando un gruppo d’interesse detiene molto potere, esso riesce a ottenere politiche che lo avvantaggiano nel breve periodo invece di sviluppare politiche vantaggiose per la società nel suo complesso nel lungo periodo. Questo è ciò che è accaduto in Occidente a causa della politica fiscale, la politica regolamentare e gli investimenti pubblici. La conseguenza della canalizzazione degli incrementi di reddito e di ricchezza in un’unica direzione è facile da immaginare quando si tratta della spesa delle famiglie comuni, che sono uno dei motori dell’economia basata sui consumi. 
Non è un caso che i periodi in cui i segmenti intermedi più vasti della popolazione hanno registrato redditi netti più elevati – quando la disuguaglianza è stata ridotta, in parte come risultato di una tassazione progressiva – sono stati i periodi in cui l’economia è cresciuta più velocemente. Analogamente non è un caso che la recessione attuale, come la Grande Depressione del 1929, sia stata preceduto da grandi aumenti della disuguaglianza. Quando troppo denaro è concentrato al vertice della società, la spesa del consumatore medio è necessariamente ridotta, (ed è la spesa del consumatore medio che tiene in piedi il sistema, non dimentichiamo questo: Sono poveri, ma sono tanti, sia da tassare che da usare come consumatori), o quanto meno lo sarà in assenza di qualche stimolo artificiale. Il trasferimento del denaro dal basso verso l’alto riduce i consumi perché i percettori dei redditi più elevati consumano, in percentuale del proprio reddito, molto meno delle persone a basso reddito. 
Ma nella nostra percezione non sembra sempre essere così, perché le spese dei ricchi sembrano essere molto alte. Basta guardare semplicemente alla vita dissoluta di alcuni calciatori o alle feste di alcuni ricchi imprenditori. Ma il fenomeno si comprende quando si usa un po’ di matematica. Si consideri una persona come Mitt Romney, candidato alla Casa Bianca, il cui reddito è stato di 21,7 milioni di dollari nel 2010. Anche se Romney scegliesse di vivere una vita più lussuosa, spenderebbe solo una frazione di tale somma, in un anno, per sostenere sé stesso e la moglie nelle loro molte case. Ma si prenda la stessa quantità di denaro e la si divida tra 500 persone – diciamo sotto forma di posti lavoro con un salario di 43.400 dollari ciascuno – e si scoprirà che quasi tutto quel denaro finisce speso. Il rapporto è semplice e a prova di bomba: quando una quantità maggiore di denaro si concentra al vertice, la domanda aggregata entra in declino. 
Se non accade qualcos’altro, sotto forma di qualche intervento, la domanda totale dell’economia sarà inferiore a quanto l’economia è in grado di fornire e ciò significa che ci sarà una crescente disoccupazione, il che ridurrà ulteriormente la domanda e che creerà il paradosso che è sotto gli occhi di tutti: negozi pieni di merce e mancanza di denaro per scambiarsi queste merci. Oggi, l’unico rimedio, in mezzo a questa profonda crisi monetaria, è la spesa governativa, che però non fa altro cha aumentare il Debito Pubblico dei governi sovrano nei confronti delle banche centrali!

Il problema della “ricerca della rendita” 
Il termine “rendita” in origine era, e lo è tuttora, per indicare i ricevi ottenuti dal possedimento di un appezzamento di terreno; sono entrate ottenute in virtù della proprietà e non dell'utilizzo o della produzione concreta. Il termine “rendita” è stato alla fine esteso a comprendere i profitti monopolistici: il reddito che si riceve semplicemente dal controllo di un monopolio. Nel tempo il significato è stato ulteriormente ampliato a includere le entrate da ogni genere di rivendicazione di proprietà. Se il governo concedeva a un’impresa il diritto esclusivo di importare una certa quantità di una certa merce, ad esempio lo zucchero, allora gli incassi extra erano chiamati una “rendita da quota”.
L’acquisizione di diritti minerari o di trivellazione produce una forma di rendita. Lo stesso dicasi di un trattamento fiscale preferenziale per interessi particolari. In senso ampio la “ricerca della rendita” definisce molti dei modi attraverso i quali in nostro attuale processo politico aiuta i ricchi a spese di tutti gli altri, includendovi trasferimenti e sovvenzioni governative, leggi che rendono il mercato meno concorrenziale, leggi che consentono ai direttori generali di appropriarsi di una quota sproporzionata delle entrate delle imprese e leggi che consentono alle imprese di realizzare profitti degradando l’ambiente. 
La dimensione della “ricerca della rendita” nella nostra economia, anche se difficile da quantificare, è chiaramente enorme. I singoli e le imprese, che eccellono nel perseguire le rendite, sono ricompensati profumatamente. L’industria finanziaria che oggi opera in larga misura come mercato speculativo anziché come uno strumento per promuovere la produttività economica reale, è il settore per eccellenza che persegue la rendita. La ricerca della rendita va oltre la speculazione. Il settore finanziario consegue rendite anche dal suo dominio dei mezzi di pagamento: le esorbitanti spese sulle carte di debito e credito e anche le commissioni meno note addebitate ai commercianti e alla fine trasferite sui consumatori. 
Il denaro che viene travasato dagli statunitensi poveri e della classe media mediante prassi di finanziamento predatorie può essere considerato una rendita. In anni recenti il settore finanziario ha contato per circa il 40% di tutti i profitti delle imprese. Ciò non significa che il suo contributo sociale se insinui nella colonna dell’attivo, o addirittura ci si approssimi. La crisi ha dimostrato come ha potuto seminare devastazioni nell’economia. In un’economia che persegue la rendita, com’è diventata la nostra, le entrate private e quelle sociali sono malamente squilibrate. Nella loro forma più semplice, le rendite non sono altro che redistribuzioni da un segmento basso della società ai redditieri in alto alla società. Gran parte della disuguaglianza nella nostra economia è conseguenza del perseguimento della rendita perché, in misura significativa, la ricerca della rendita ridistribuisce il denaro da quelli che stanno in basso a quelli che stanno al vertice. 
Ma c’è una conseguenza economica più vasta: la lotta per acquisire rendite è, nel migliore dei casi, un’attività a somma zero. Il perseguimento della rendita non fa crescere nulla. Gli sforzi sono diretti a ottenere una fetta più grande della torta piuttosto che ad accrescere la dimensione della torta. Ma è ancora peggio: la ricerca della rendita distorce l’allocazione delle risorse e rende più debole l’economia. E’ una forza centripeta: i premi della ricerca della rendita diventano così smisurati che sempre più energia è diretta a tale attività, a spese di tutto il resto.
Paesi ricchi di risorse naturali sono famigerati per le loro attività di perseguimento della rendita. E’ molto più facile diventare ricchi in tali luoghi ottenendo l’accesso a risorse a condizioni favorevoli che producendo beni o servizi che avvantaggino la gente e aumentino la produttività. E’ per questo che tali economie hanno avuto risultati così brutti, nonostante la loro apparente ricchezza. E’ facile buttarla sul ridicolo e dire: “Noi non siamo la Nigeria, noi non siamo il Congo.” Ma la dinamica del perseguimento della rendita è la stessa. 

Il problema dell’equità
Le persone non sono macchine. Per lavorare duro devono essere motivate. Se sentono di essere trattate scorrettamente, può essere difficile motivarle. Questo è uno dei principi centrali della moderna economia del lavoro, incapsulata nella cosiddetta teoria efficienza-salario che descrive il rapporto tra il modo in cui le aziende trattano i loro lavoratori – comprese le remunerazioni – e la produttività. Si tratta, in effetti, di una teoria elaborata quasi un secolo fa dal grande economista Alfred Marshall, che osservò che “il lavoro pagato bene è generalmente efficiente, e dunque non è lavoro costoso.” In verità è sbagliato considerare quest’affermazione solo come una teoria: è stata avvalorata da innumerevoli esperimenti economici e psicologici. 
Anche se ci sarà sempre disaccordo tra le persone sul preciso significato di cosa sia “equo”, c’è la crescente sensazione che l’attuale disparità di reddito, e il modo in cui, in generale, è distribuita la ricchezza, sia profondamente iniqua. Non c’è invidia per la ricchezza accumulata da quelli che hanno trasformato la nostra economia: gli inventori del computer, i pionieri della biotecnologia. Ma, per la maggior parte, non sono queste le persone al vertice della nostra piramide economica. In larga misura, si tratta di persone che hanno raggiunto i vertici perseguendo la rendita in una forma o nell’altra. E, alla maggior parte della gente, ciò sembra iniquo. 
In una società nella quale la disuguaglianza si sta aggravando, l’equità non riguarda soltanto i salari e il reddito, o la ricchezza. E’ una percezione molto più generalizzata. Bisogna chiedersi se le persone si sentano coinvolte nel progetto che la società sta seguendo. Se partecipano ai vantaggi dell’azione collettiva, o no? Se la risposta è un sonoro “no”, allora ci si prepari a un declino di motivazione le cui ripercussioni saranno avvertire nell’economia e in tutti gli aspetti della vita civile. 

La soluzione del “Siate egoisti” 
Molte persone, se non la maggior parte di loro, hanno una comprensione limitata della natura della disuguaglianza nella nostra società. Sanno che qualcosa è andato storto, ma sottovalutano il danno che la disuguaglianza produce, mentre sopravvalutano il costo del prendere iniziative. Queste convinzioni sbagliate, che sono state rafforzate dalla propaganda ideologica dei potenti, stanno avendo un effetto catastrofico sulla politica e sulla politica economica. 
La domanda allora è: perchè questo un per cento, con la sua buona istruzione, le sue schiere di consulenti e il suo tanto vantato acume affaristico, non si rende conto di quello che sta accadendo? L’un per cento delle generazioni passate spesso la sapeva più lunga. Sapeva che non ci sarebbe stato un vertice della piramide se non ci fosse stata una base solida, che la sua posizione era precaria se la società stessa era malsicura. 
Henry Ford, capì che la cosa migliore che poteva fare per sé e per la sua impresa era pagare ai dipendenti un salario onesto, perché voleva che lavorassero duro e voleva che fossero in grado di acquistare le sue auto. Franklin D. Roosevelt, un patrizio purosangue, capì che l’unico modo per salvare gli Stati Uniti essenzialmente capitalisti consisteva non solo nel diffondere la ricchezza, attraverso la tassazione e programmi sociali, ma nel porre limiti al capitalismo stesso, mediante regolamenti.
 Roosevelt e l’economista John Maynard Keynes, anche se vituperati dai capitalisti, riuscirono a salvare il capitalismo dai capitalisti. Richard Nixon, noto ai tempi suoi come un cinico manipolatore, concluse che la pace sociale e la stabilità economica potevano essere assicurati meglio tramite investimenti ed egli investì per davvero, nel programma Medicare, in quello Head Start e nella Previdenza Sociale e in sforzi per ripulire l’ambiente. Nixon fece anche circolare l’idea di un reddito annuo garantito. 
Dunque il consiglio che io darei oggi all’1% è: indurite i vostri cuori. Quando siete invitati a prendere in considerazione proposte per ridurre la disuguaglianza – aumentando le tasse e investendo nell’istruzione, nei lavori pubblici, nell’assistenza sanitaria e nella scienza – mettete da parte qualsiasi latente idea di altruismo e riducete l’idea a un atteggiamento di genuino egoismo. Non abbracciatela perché aiuta gli altri, ma fatelo soltanto per voi stessi!

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