Lo storico P. Ginsborg riassume sia gli aspetti problematici della definizione di familismo sia alcune tappe del complesso dibattito intorno al suo uso. Ginsborg è comunque convinto che la categoria, se correttamente intesa, sia di grande utilità nel rendere ragione di alcuni importanti problemi della società italiana.
Paul Ginsborg, a cura di, Stato dell’Italia, Il Saggiatore e Bruno Mondadori, 1994, p.78 e sg
Il familismo è un rapporto specifico fra famiglia, società civile e Stato nel cui quadro i valori e gli interessi della famiglia sono contrapposti agli altri momenti principali della convivenza umana. La versione italiana di questo rapporto non è costante ma non è neanche un miraggio. La caratterizzano unità familiari fortemente coese, una società civile relativamente debole e una sfiducia nello Stato centrale profondamente radicata.
Nella letteratura popolare, tra i giornalisti e i commentatori stranieri si è diffusa nel tempo una convinzione quasi unanime sulla natura della famiglia italiana: essa si distingue sia per la sua straordinaria compattezza, sia per il grande potere che detiene e la centralità di cui gode nella società italiana. Di più, secondo lo stesso modo di vedere, le caratteristiche prorompenti della famiglia sono state una delle più importanti e longeve specificità della storia italiana. Peter Nichols, per molti anni corrispondente da Roma del «Times», ha descritto la famiglia italiana nel suo Italia, Italia (1973) come «il più celebre capolavoro della società italiana attraverso i secoli, il baluardo, l'unità naturale, il dispensatore di tutto ciò che lo Stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore e il rimuneratore». Luigi Barzini Jr., nel capitolo dedicato alla famiglia del suo notissimo Gli Italiani (1964), si era spinto anche oltre: «Gli studiosi hanno sempre ravvisato nella famiglia l'unica istituzione fondamentale del paese, la creazione spontanea del genio nazionale, adattata nel corso dei secoli alle mutevoli condizioni, il vero fondamento del predominante ordinamento sociale, qualunque esso sia di volta in volta». Barzini poneva ai suoi lettori la domanda: «La famiglia continuerà sempre a dominare?», ed era un quesito che per lui costituiva niente di mene che «l'interrogativo centrale della storia e della vita politica italiana».
Una rete familiare fortissima
Se dalle opinioni giornalistiche, spesse frutto di notevole acume ma per definizione superficiali, passiamo alla ricerca sociologica contemporanea, troviamo subito una conferma sostanziale dell'attuale compattezza, centralità e specificità della famiglia italiana. Nel 1989 l'ISSP (International social survey programme) ha pubblicato statistiche comparate relative alle reti sociali di sette paesi (Australia, Austria, Gran Bretagna, Ungheria, Italia, Stati Uniti e Germania federale). È da notare subito che nell'indagine mancano i paesi islamici e che l'Italia è l'unico paese mediterraneo preso in considerazione. Pur tenuto conto di questi limiti, la specificità della famiglia italiana emerge in modo nettissimo. Da tutta una serie di indicatori - il numero di figli sopra i diciotto anni che vivono in famiglia, la vicinanza geografica alla madre di figli sposati, la quantità di contatti tra gli uni e l'altra, l'aiuto finanziario dato dai genitori ai figli - l'Italia emerge con una rete familiare fortissima. In particolare, le risultanze sembrerebbero confermare le conclusioni di più di uno studio antropologico sui rapporti esistenti in Italia tra le generazioni e sulla matricentricità della famiglia italiana
Un rapporto tra famiglia, società civile e Stato
Sarebbe un grave errore, però, identificare queste caratteristiche con il familismo tout court. Il termine familismo, per avere una sua utilità scientifica e culturale, deve essere usato in modo specifico e non semplicemente per descrivere l'attaccamento alla famiglia e la compattezza interna del nucleo familiare. Bisogna pensare il familismo come un rapporto tra famiglia, società civile e Stato, nel cui quadro i valori e gli interessi della famiglia sono contrapposti a quelli degli altri momenti principali dell'associazionismo umano. Il familismo esiste quando trionfano forme esasperate di privatismo familiare, di perseguimento esclusivo degli interessi familiari, di cecità o sordità verso i bisogni di gruppi più estesi della ristretta cerchia familiare, di rifiuto di un rapporto con lo Stato basato sull'obbligo reciproco. Il concetto di familismo dunque ha connotazioni fortemente negative, anche se è necessario evitare giudizi sommari e riconoscere la complessità dei rapporti tra la famiglia e il mondo esterno. In determinate circostanze - per esempio quelle di uno Stato con aspirazioni totalitarie - il familismo può perfino diventare un rifugio obbligato.
La tesi di Banfield
Fu l'antropologo Edward Banfield, con il suo studio del 1958 sullo sperduto paese lucano di «Montegrano» (in realtà Chiaromonte), a suscitare una vivacissima discussione sull'esistenza e sulla natura del familismo in Italia. Banfield coniò il termine «familismo amorale» (l'aggettivo sembra ridondante, ma Banfield spiega che vuole distinguere tra atteggiamenti «morali» all'interno della famiglia e quelli «amorali» all'esterno), per descrivere l'incapacità «degli abitanti di agire insieme per il bene comune, o più in generale per qualsivoglia fine che trascenda l'interesse materiale immediato del nucleo familiare». Per spiegare questo atteggiamento, Banfield attribuisce un ruolo centrale a tre fattori: la forma della famiglia che si osserva a Chiaromonte (nucleare e non estesa), l'alto tasso di mortalità e un determinato assetto fondiario. A sua volta, è la forza del familismo in quanto fenomeno culturale che spiega il rapporto deformato tra famiglia, società civile e Stato.
Il dibattito sul familismo
Anche se lo stesso Banfield è stato abbastanza cauto nel postulare la rappresentatività di Chiaromonte, limitandosi a sostenere semplicemente che «per taluni aspetti» si tratterebbe di un fenomeno «abbastanza "tipico"», riscontratile in altre regioni rurali del Sud, altri studiosi dell'italia hanno teso a estendere drasticamente la categoria del familismo, in senso sia geografico che cronologico. Per l'antropologo Carlo Tullio Altan il familismo è stato uno dei caratteri specifici della storia della società italiana. È un tipo di vincolo che si ritrova dappertutto nella penisola e lo si rintraccia già nel XV secolo nei diari e nella corrispondenza dell'umanista toscano Leon Battista Alberti. Per Tullio Altan «prevalentemente rimase e rimane tuttora in gran parte della società italiana, sia al Nord che al Sud, il punto di vista della morale individualistico-familistica albertiana, con le sue disastrose conseguenze sociali: la vera e profonda matrice del qualunquismo nazionale».
La costante sfiducia nello Stato
Nella mia Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi (1989) ho cercato di prendere le distanze da questo tipo di condanna inappellabile, sostenendo piuttosto che le famiglie italiane, almeno negli ultimi cinquant'anni, hanno mostrato atteggiamenti fluttuanti nei confronti della società civile e una costante sfiducia nello Stato. In certi periodi, come nel Nord durante la Resistenza e nel Sud durante l'occupazione delle terre negli anni quaranta. oppure durante le lotte sociali dei primi anni settanta, molte famiglie italiane, lungi dal presentare forme esasperate di privatismo si sono impegnate a fondo nella lotta comune a nell'organizzazione della società civile. In altri momenti, invece, come ne gli anni ottanta, la maggioranza del famiglie ha mostrato una forte tenenza a «chiamarsi fuori» per seguire strategie meramente familistiche. Inoltre, le moderne condizioni economiche e sociali, dagli anni del «miracolo economico» in poi, hanno accennato in misura considerevole la tenenza della famiglia al privatismo. Gabriella Gribaudi, in un articolo del 1993, ha gettato ulteriori dubbi sull'utilità del concetto di familismo, quanto meno nella sua applicazione il Mezzogiorno da parte di studiosi ) postisi nella scia di Banfield. Prendendo come campo d'indagine la Napoli contemporanea, la Gribaudi mostra come qualsiasi concezione di un tipo unico di famiglia o di un'ideologia univoca delle famiglie, anche in un'area ristretta come il ventre di Napoli, si riveli del tutto fuorviante. Ci sono famiglie di artigiani che hanno un'interazione feconda e costante con la società circostante, mentre ci sono famiglie camorristiche del tutto diverse per struttura e regole di condotta. Ben pochi riscontri stanno a indicare che siano le famiglie nucleari piuttosto che le famiglie estese ad alimentare il familismo, o che si possa parlare in genere della famiglia meridionale come più familista di quella settentrionale. In conclusione la studiosa riscontra che il portato della sua ricerca «rende del tutto vano il concetto di familismo e qualsiasi generalizzazione sulla famiglia».
La forma nazionale del familismo
È questo un opportuno e utile correttivo delle tesi drastiche di Tullio Altan, ma vi è il rischio di liquidare senza mezzi termini quello che in realtà e un elemento importante e ricorrente della cultura politica italiana. Come ha scritto di recente Norberto Bobbio, in Italia «per la famiglia si sprecano impegno, energie e coraggio, ma ne rimane poco per la società e per lo Stato». La versione italiana del familismo è definita da unità familiari fortemente coese (centrate attorno alla madre e con pregnanti solidarietà intergenerazionali), da una società caratterizzata, specialmente nel Sud, da rapporti verticali più che orizzontali e una sfiducia nello Stato centrale profondamente radicata. Svariati studi, da quello di D. Pitkin per il Lazio quelli di L. Pinna per la Sardegna e G. De Napoli per la Calabria, hanno identificato atteggiamenti familisti e solo la mancanza di una moderna antropologia urbana ha impedito che in Italia si arrivasse a una descrizione del fenomeno più ricca e aggiornata.
Il ruolo dello Stato
Ciò che è importante, dunque, non è negare l'esistenza del fenomeno, dal momento che ogni paese ha forme di familismo (nel caso della Gran Bretagna basta ricordare i forti atteggiamenti familistici dei lavoratori dell’automobile del sud urbano studiati da Goldthorpe e altri nei primi anni Sessanta). Si deve piuttosto cercare di comprenderne le variazioni nel tempo, da città a campagna, da una regione del paese all'altra, da ceto a ceto, da famiglia a famiglia. Il familismo italiano non è una costante, ma non è neppure un miraggio.
In conclusione sembra opportuno tornare alla spiegazione del familismo come fenomeno. I tre elementi materiali di Banfield (forma della famiglia, assetto fondiario, tassi di mortalità) sono evidentemente assai meno soddisfacenti come spiegazione generale di quanto possa esserlo un'interpretazione fondata sulla debolezza e l'inefficacia storiche delle politiche pubbliche in Italia. È indubbio che nel corso del tempo il familismo è stato rinforzato dai molteplici fallimenti dello Stato italiano. Nella maggior parte delle aree cruciali dell'attività statuale - la creazione di una pubblica amministrazione efficiente e trasparente, l'elaborazione di un sistema fiscale equo, l'offerta di servizi sociali, l'incoraggiamento delle organizzazioni autonome della società civile, la protezione e lo sviluppo degli spazi pubblici (parchi, riserve naturali ecc.) - le politiche pubbliche sono state tra le più modeste d'Europa. Lo Stato italiano, fin dall'Unità, di rado ha mostrato un volto benevolo verso le famiglie italiane ed esse a loro volta lo hanno guardato con una costante diffidenza e scarsa lealtà: nella maggior parte dei casi le famiglie italiane hanno scelto la strategia di stringere i ranghi e si sono mosse su terreno pubblico ostile ricorrendo alle prassi dei rapporti clientelari tradizionali e alle reti di parentela. Nel corso del tempo tali prassi sono diventate modello comune in molti settori della sfera pubblica, per cui non è del tutto contraddittorio parlare di stato familistico. In merito può bastare un esempio, preso ai massimi livelli. Quando nel novembre 1986 Bettino Craxi, allora presidente del consiglio, si recò in visita a Pechino, il suo seguito di familiari, parenti, amici e conoscenti ammontava a cinquantadue persone, tra le quali figuravano il figlio Bobo con fidanzata, la figlia Stefania, la compagna di Claudio Martelli e il fotografo privato di Craxi. Come ebbe a commentare causticamente Giulio Andreotti: «Sono qui in Cina con Craxi e i suoi cari». Quando lo Stato manca di radici solide e di valori universalistici, e quando il vincolo familiare è forte come lo è in Italia, esiste sempre il rischio che il familismo infetti la sfera pubblica oltre che quella privata.
La famiglia cattolica
Un'ultima chiave d'interpretazione va ricercata nell'ideologia cattolica. Anche se bisogna guardarsi dall'identificare in maniera meccanica la teologia cattolica della famiglia con il familismo, è possibile individuare elementi dell'insegnamento cattolico relativo alla famiglia che nel lungo periodo hanno rinforzato valori familisti. La priorità che nella famiglia cattolica si attribuisce agli obblighi interni rispetto a quelli esterni (indissolubilità, devozione, capacità dei genitori di educare i figli in maniera cristiana), la manifesta preminenza che la famiglia cattolica si assegna rispetto alla società civile (preminenza di ordine sia storica sia etica, come spiegava l'Enciclopedia cattolica nel 1950), la tenace diffidenza e l'ostilità della Chiesa cattolica nei confronti dello Stato unificato, sono altrettanti elementi che sono valsi a far sedimentare in Italia una particolare versione del rapporto tra pubblico a privato. Resta l'interrogativo di Barzini: in Italia la famiglia continuerà a predominare per sempre? È probabilmente lecito rispondere: sì, finché lo Stato non sarà in grado di instaurare un circolo virtuoso tra se stesso, la famiglia e la società civile. Tuttavia, anche nella più positiva eventualità, è assai improbabile che atteggiamenti tanto radicati scompaiano in tempi brevi.
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Paul Ginsborg, a cura di, Stato dell’Italia, Il Saggiatore e Bruno Mondadori, 1994, p.78 e sg
Il familismo è un rapporto specifico fra famiglia, società civile e Stato nel cui quadro i valori e gli interessi della famiglia sono contrapposti agli altri momenti principali della convivenza umana. La versione italiana di questo rapporto non è costante ma non è neanche un miraggio. La caratterizzano unità familiari fortemente coese, una società civile relativamente debole e una sfiducia nello Stato centrale profondamente radicata.
Nella letteratura popolare, tra i giornalisti e i commentatori stranieri si è diffusa nel tempo una convinzione quasi unanime sulla natura della famiglia italiana: essa si distingue sia per la sua straordinaria compattezza, sia per il grande potere che detiene e la centralità di cui gode nella società italiana. Di più, secondo lo stesso modo di vedere, le caratteristiche prorompenti della famiglia sono state una delle più importanti e longeve specificità della storia italiana. Peter Nichols, per molti anni corrispondente da Roma del «Times», ha descritto la famiglia italiana nel suo Italia, Italia (1973) come «il più celebre capolavoro della società italiana attraverso i secoli, il baluardo, l'unità naturale, il dispensatore di tutto ciò che lo Stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore e il rimuneratore». Luigi Barzini Jr., nel capitolo dedicato alla famiglia del suo notissimo Gli Italiani (1964), si era spinto anche oltre: «Gli studiosi hanno sempre ravvisato nella famiglia l'unica istituzione fondamentale del paese, la creazione spontanea del genio nazionale, adattata nel corso dei secoli alle mutevoli condizioni, il vero fondamento del predominante ordinamento sociale, qualunque esso sia di volta in volta». Barzini poneva ai suoi lettori la domanda: «La famiglia continuerà sempre a dominare?», ed era un quesito che per lui costituiva niente di mene che «l'interrogativo centrale della storia e della vita politica italiana».
Una rete familiare fortissima
Se dalle opinioni giornalistiche, spesse frutto di notevole acume ma per definizione superficiali, passiamo alla ricerca sociologica contemporanea, troviamo subito una conferma sostanziale dell'attuale compattezza, centralità e specificità della famiglia italiana. Nel 1989 l'ISSP (International social survey programme) ha pubblicato statistiche comparate relative alle reti sociali di sette paesi (Australia, Austria, Gran Bretagna, Ungheria, Italia, Stati Uniti e Germania federale). È da notare subito che nell'indagine mancano i paesi islamici e che l'Italia è l'unico paese mediterraneo preso in considerazione. Pur tenuto conto di questi limiti, la specificità della famiglia italiana emerge in modo nettissimo. Da tutta una serie di indicatori - il numero di figli sopra i diciotto anni che vivono in famiglia, la vicinanza geografica alla madre di figli sposati, la quantità di contatti tra gli uni e l'altra, l'aiuto finanziario dato dai genitori ai figli - l'Italia emerge con una rete familiare fortissima. In particolare, le risultanze sembrerebbero confermare le conclusioni di più di uno studio antropologico sui rapporti esistenti in Italia tra le generazioni e sulla matricentricità della famiglia italiana
Un rapporto tra famiglia, società civile e Stato
Sarebbe un grave errore, però, identificare queste caratteristiche con il familismo tout court. Il termine familismo, per avere una sua utilità scientifica e culturale, deve essere usato in modo specifico e non semplicemente per descrivere l'attaccamento alla famiglia e la compattezza interna del nucleo familiare. Bisogna pensare il familismo come un rapporto tra famiglia, società civile e Stato, nel cui quadro i valori e gli interessi della famiglia sono contrapposti a quelli degli altri momenti principali dell'associazionismo umano. Il familismo esiste quando trionfano forme esasperate di privatismo familiare, di perseguimento esclusivo degli interessi familiari, di cecità o sordità verso i bisogni di gruppi più estesi della ristretta cerchia familiare, di rifiuto di un rapporto con lo Stato basato sull'obbligo reciproco. Il concetto di familismo dunque ha connotazioni fortemente negative, anche se è necessario evitare giudizi sommari e riconoscere la complessità dei rapporti tra la famiglia e il mondo esterno. In determinate circostanze - per esempio quelle di uno Stato con aspirazioni totalitarie - il familismo può perfino diventare un rifugio obbligato.
La tesi di Banfield
Fu l'antropologo Edward Banfield, con il suo studio del 1958 sullo sperduto paese lucano di «Montegrano» (in realtà Chiaromonte), a suscitare una vivacissima discussione sull'esistenza e sulla natura del familismo in Italia. Banfield coniò il termine «familismo amorale» (l'aggettivo sembra ridondante, ma Banfield spiega che vuole distinguere tra atteggiamenti «morali» all'interno della famiglia e quelli «amorali» all'esterno), per descrivere l'incapacità «degli abitanti di agire insieme per il bene comune, o più in generale per qualsivoglia fine che trascenda l'interesse materiale immediato del nucleo familiare». Per spiegare questo atteggiamento, Banfield attribuisce un ruolo centrale a tre fattori: la forma della famiglia che si osserva a Chiaromonte (nucleare e non estesa), l'alto tasso di mortalità e un determinato assetto fondiario. A sua volta, è la forza del familismo in quanto fenomeno culturale che spiega il rapporto deformato tra famiglia, società civile e Stato.
Il dibattito sul familismo
Anche se lo stesso Banfield è stato abbastanza cauto nel postulare la rappresentatività di Chiaromonte, limitandosi a sostenere semplicemente che «per taluni aspetti» si tratterebbe di un fenomeno «abbastanza "tipico"», riscontratile in altre regioni rurali del Sud, altri studiosi dell'italia hanno teso a estendere drasticamente la categoria del familismo, in senso sia geografico che cronologico. Per l'antropologo Carlo Tullio Altan il familismo è stato uno dei caratteri specifici della storia della società italiana. È un tipo di vincolo che si ritrova dappertutto nella penisola e lo si rintraccia già nel XV secolo nei diari e nella corrispondenza dell'umanista toscano Leon Battista Alberti. Per Tullio Altan «prevalentemente rimase e rimane tuttora in gran parte della società italiana, sia al Nord che al Sud, il punto di vista della morale individualistico-familistica albertiana, con le sue disastrose conseguenze sociali: la vera e profonda matrice del qualunquismo nazionale».
La costante sfiducia nello Stato
Nella mia Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi (1989) ho cercato di prendere le distanze da questo tipo di condanna inappellabile, sostenendo piuttosto che le famiglie italiane, almeno negli ultimi cinquant'anni, hanno mostrato atteggiamenti fluttuanti nei confronti della società civile e una costante sfiducia nello Stato. In certi periodi, come nel Nord durante la Resistenza e nel Sud durante l'occupazione delle terre negli anni quaranta. oppure durante le lotte sociali dei primi anni settanta, molte famiglie italiane, lungi dal presentare forme esasperate di privatismo si sono impegnate a fondo nella lotta comune a nell'organizzazione della società civile. In altri momenti, invece, come ne gli anni ottanta, la maggioranza del famiglie ha mostrato una forte tenenza a «chiamarsi fuori» per seguire strategie meramente familistiche. Inoltre, le moderne condizioni economiche e sociali, dagli anni del «miracolo economico» in poi, hanno accennato in misura considerevole la tenenza della famiglia al privatismo. Gabriella Gribaudi, in un articolo del 1993, ha gettato ulteriori dubbi sull'utilità del concetto di familismo, quanto meno nella sua applicazione il Mezzogiorno da parte di studiosi ) postisi nella scia di Banfield. Prendendo come campo d'indagine la Napoli contemporanea, la Gribaudi mostra come qualsiasi concezione di un tipo unico di famiglia o di un'ideologia univoca delle famiglie, anche in un'area ristretta come il ventre di Napoli, si riveli del tutto fuorviante. Ci sono famiglie di artigiani che hanno un'interazione feconda e costante con la società circostante, mentre ci sono famiglie camorristiche del tutto diverse per struttura e regole di condotta. Ben pochi riscontri stanno a indicare che siano le famiglie nucleari piuttosto che le famiglie estese ad alimentare il familismo, o che si possa parlare in genere della famiglia meridionale come più familista di quella settentrionale. In conclusione la studiosa riscontra che il portato della sua ricerca «rende del tutto vano il concetto di familismo e qualsiasi generalizzazione sulla famiglia».
La forma nazionale del familismo
È questo un opportuno e utile correttivo delle tesi drastiche di Tullio Altan, ma vi è il rischio di liquidare senza mezzi termini quello che in realtà e un elemento importante e ricorrente della cultura politica italiana. Come ha scritto di recente Norberto Bobbio, in Italia «per la famiglia si sprecano impegno, energie e coraggio, ma ne rimane poco per la società e per lo Stato». La versione italiana del familismo è definita da unità familiari fortemente coese (centrate attorno alla madre e con pregnanti solidarietà intergenerazionali), da una società caratterizzata, specialmente nel Sud, da rapporti verticali più che orizzontali e una sfiducia nello Stato centrale profondamente radicata. Svariati studi, da quello di D. Pitkin per il Lazio quelli di L. Pinna per la Sardegna e G. De Napoli per la Calabria, hanno identificato atteggiamenti familisti e solo la mancanza di una moderna antropologia urbana ha impedito che in Italia si arrivasse a una descrizione del fenomeno più ricca e aggiornata.
Il ruolo dello Stato
Ciò che è importante, dunque, non è negare l'esistenza del fenomeno, dal momento che ogni paese ha forme di familismo (nel caso della Gran Bretagna basta ricordare i forti atteggiamenti familistici dei lavoratori dell’automobile del sud urbano studiati da Goldthorpe e altri nei primi anni Sessanta). Si deve piuttosto cercare di comprenderne le variazioni nel tempo, da città a campagna, da una regione del paese all'altra, da ceto a ceto, da famiglia a famiglia. Il familismo italiano non è una costante, ma non è neppure un miraggio.
In conclusione sembra opportuno tornare alla spiegazione del familismo come fenomeno. I tre elementi materiali di Banfield (forma della famiglia, assetto fondiario, tassi di mortalità) sono evidentemente assai meno soddisfacenti come spiegazione generale di quanto possa esserlo un'interpretazione fondata sulla debolezza e l'inefficacia storiche delle politiche pubbliche in Italia. È indubbio che nel corso del tempo il familismo è stato rinforzato dai molteplici fallimenti dello Stato italiano. Nella maggior parte delle aree cruciali dell'attività statuale - la creazione di una pubblica amministrazione efficiente e trasparente, l'elaborazione di un sistema fiscale equo, l'offerta di servizi sociali, l'incoraggiamento delle organizzazioni autonome della società civile, la protezione e lo sviluppo degli spazi pubblici (parchi, riserve naturali ecc.) - le politiche pubbliche sono state tra le più modeste d'Europa. Lo Stato italiano, fin dall'Unità, di rado ha mostrato un volto benevolo verso le famiglie italiane ed esse a loro volta lo hanno guardato con una costante diffidenza e scarsa lealtà: nella maggior parte dei casi le famiglie italiane hanno scelto la strategia di stringere i ranghi e si sono mosse su terreno pubblico ostile ricorrendo alle prassi dei rapporti clientelari tradizionali e alle reti di parentela. Nel corso del tempo tali prassi sono diventate modello comune in molti settori della sfera pubblica, per cui non è del tutto contraddittorio parlare di stato familistico. In merito può bastare un esempio, preso ai massimi livelli. Quando nel novembre 1986 Bettino Craxi, allora presidente del consiglio, si recò in visita a Pechino, il suo seguito di familiari, parenti, amici e conoscenti ammontava a cinquantadue persone, tra le quali figuravano il figlio Bobo con fidanzata, la figlia Stefania, la compagna di Claudio Martelli e il fotografo privato di Craxi. Come ebbe a commentare causticamente Giulio Andreotti: «Sono qui in Cina con Craxi e i suoi cari». Quando lo Stato manca di radici solide e di valori universalistici, e quando il vincolo familiare è forte come lo è in Italia, esiste sempre il rischio che il familismo infetti la sfera pubblica oltre che quella privata.
La famiglia cattolica
Un'ultima chiave d'interpretazione va ricercata nell'ideologia cattolica. Anche se bisogna guardarsi dall'identificare in maniera meccanica la teologia cattolica della famiglia con il familismo, è possibile individuare elementi dell'insegnamento cattolico relativo alla famiglia che nel lungo periodo hanno rinforzato valori familisti. La priorità che nella famiglia cattolica si attribuisce agli obblighi interni rispetto a quelli esterni (indissolubilità, devozione, capacità dei genitori di educare i figli in maniera cristiana), la manifesta preminenza che la famiglia cattolica si assegna rispetto alla società civile (preminenza di ordine sia storica sia etica, come spiegava l'Enciclopedia cattolica nel 1950), la tenace diffidenza e l'ostilità della Chiesa cattolica nei confronti dello Stato unificato, sono altrettanti elementi che sono valsi a far sedimentare in Italia una particolare versione del rapporto tra pubblico a privato. Resta l'interrogativo di Barzini: in Italia la famiglia continuerà a predominare per sempre? È probabilmente lecito rispondere: sì, finché lo Stato non sarà in grado di instaurare un circolo virtuoso tra se stesso, la famiglia e la società civile. Tuttavia, anche nella più positiva eventualità, è assai improbabile che atteggiamenti tanto radicati scompaiano in tempi brevi.
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