di Daniele Della Bona
Questo post è il primo di una serie dedicata all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia. Cercheremo di capire come su di esso abbiano influito i vari shock di politica economica occorsi a partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario Europeo (SME), alle politiche fiscali intraprese dai governi che si sono succeduti, fino alla lunga fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro.
Sovranità monetaria e politica fiscale
Il punto centrale dal quale parte la Mosler Economics – Modern Money Theory è il concetto di sovranità monetaria. Ossia: 1) lo Stato è la prima entità che emette la moneta nell’atto della spesa pubblica, definendo in questo modo qual è la moneta di Stato e 2) quella valuta fluttua liberamente sul mercato dei cambi, cioè non è vincolata ad alcuna parità di cambio prestabilita e perseguita dalle autorità politiche e monetarie. Ovviamente, come spesso dico, si tratta di un requisito indispensabile per fare in modo che un governo possa applicare una politica fiscale in grado di apportare un beneficio all’intera collettività, cioè si tratta di una condizione sufficiente ma non necessaria: possibilità e volontà politica sono due concetti ben diversi e questo non va mai dimenticato.
Il mercato del lavoro
Facciamo un passo in avanti cercando di capire quale sia il rapporto fra politica fiscale e mercato del lavoro. Una prima considerazione piuttosto banale è che un governo che non dispone della piena sovranità monetaria, che è costretto pertanto a finanziarsi sul mercato, incontra un ostacolo notevole alla sua (eventuale) volontà politica di applicare politiche indirizzate al sostegno sia del livello della domanda in generale che, soprattutto, dei salari dei lavoratori. Per riassumere il concetto: se i soldi devo farmeli prestare e accettare le condizioni di prestito altrui può risultare più difficile proporre un certo tipo di politica economica.Ecco dunque che in una situazione del genere il mercato del lavoro viene lasciato a se stesso e alle sue dinamiche interne.
E per capirne le dinamiche è opportuno cercare di dare una definizione di mercato del lavoro. Come ci ricorda Bill Mitchell, economista dell’Univeristà di Leeds (Australia) e direttore del Center of Full employment and Equity, il mercato del lavoro va considerato prima di tutto come un costrutto sociale, che, in quanto tale, incorpora delle relazioni di potere. Queste relazioni di potere, ovviamente, non sono date e immutabili, bensì esprimono e riflettono il risultato di una “lotta” fra attori economici portatori di interessi diversi. Per dirla con Marx, da una parte abbiamo coloro che che vendono la propria forza lavoro (i lavoratori), dall’altra, coloro che acquistano questa forza lavoro (che possiamo chiamare in via generale capitalisti).
Queste due categorie sono fondamentalmente antagoniste, dal momento che i lavoratori vorrebbero essere pagati di più per lavorare il minor tempo possibile, mentre i capitalisti vorrebbero sborsare meno soldi per acquisire il maggior flusso possibile di prestazioni lavorative.
Il modello mainstream
Questo tipo di visione purtroppo viene oggi dal tutto sfumata, se non addirittura eliminata, nell’approccio mainstream (quello di stampo neoclassico).
Per esempio, nel famoso manuale di Macroeconomia di Olivier Blanchard (forse il più utilizzato nei corsi di economia politica nelle università italiane) pur essendo sottolineato e analizzato il peso della presenza di sindacati e di imprese dotate di gradi diversi di potere di mercato nel processo di contrattazione salariale, la conclusione teorica è che, in realtà, il conflitto salariale è dannoso per i lavoratori stessi.
L’idea neoclassica in soldoni è questa: supponiamo che i lavoratori diventino più rivendicativi e comincino a chiedere salari più elevati perché per esempio vengono introdotte leggi che li tutelano maggiormente oppure perché i sindacati che li rappresentano sono estremamente agguerriti; a questo punto, secondo Blanchard, le imprese reagiranno aumentando il livello dei prezzi, in modo da preservare il proprio margine di profitto; questo aumento dei prezzi effettivi indurrà i lavoratori a rivedere al rialzo il livello dei prezzi attesi, spingendoli a chiedere ulteriori aumenti salariali; ciò innescherà un’ulteriore reazione da parte delle imprese e così via. Ma non finisce qui, spiega sempre Blanchard: l’aumento dei prezzi e dei salari provocherà una diminuzione del valore delle scorte monetarie, e una conseguente corsa alla vendita di titoli per acquisire più moneta, che farà aumentare il tasso d’interesse e dunque diminuirà il livello di investimenti, produzione, domanda e quindi, in ultima battuta, provocherà un aumento della disoccupazione. A questo punto, l’aumento dei disoccupati costringerà i lavoratori a ricomporre le proprie rivendicazioni, che si uniformeranno necessariamente al salario reale offerto dalle imprese. Il nuovo equilibrio del mercato del lavoro ha così determinato un aumento della disoccupazione.
Cosa dovrebbero fare, quindi, i lavoratori? Beh, dice il modello mainstream, dovrebbero ridurre e moderare le loro pretese salariali. Infatti, se i salari reali domandati dai lavoratori diventano inferiori a quelli offerti dalle imprese, caleranno in maniera proporzionale anche i prezzi applicati dalle imprese stesse, quindi aumenterà il valore reale delle scorte monetarie e con esso la domanda di beni e servizi, il livello degli investimenti, la produzione e dunque anche l’occupazione.
Insomma, il modello mainstream, suggerisce apertamente che il conflitto salariale e le rivendicazioni sindacali sono dannose per il lavoratore stesso e quindi è opportuno a prescindere perseguire politiche di moderazione salariale. Il messaggio di fondo è dunque che il conflitto non paga, anzi. Il tutto si fonda poi naturalmente sul concetto di “equilibrio naturale”, ossia che esiste un livello naturale di produzione, salari, prezzi, disoccupazione a cui tende l’economia che non può essere scalfito in alcun modo.
Purtroppo, il modello mainstream non solo non regge di fronte alla realtà dei dati (come vedremo) ma incorpora in sé anche profonde ombre di tipo teorico (che volesse approfondire approfondire può vedere l’interessante saggio in italiano Anti-Blanchard di Emiliano Brancaccio).
Quali sono questi limiti (e ne elenco solo i principali):
Primo: Blanchard considera il margine di profitto applicato dalle imprese come un qualcosa di dato, di fisso, di costante e assume quindi che nel momento in cui le imprese acquisiscano una maggiore forza contrattuale nei confronti dei lavoratori non la usino per incrementare la loro quota profitti, invece di, come viene sostenuto, diminuire i prezzi. Capite bene che si tratta di una forzatura teorica piuttosto azzardata e che oltretutto sembra essere abbastanza irrealistica.
Secondo: il conflitto salariale, nella visione mainstream, si risolve con un adeguamento che viene imposto da parte delle imprese ai lavoratori, quando invece è molto più presumibile che un conflitto di questo tipo spesso tenda a stabilizzarsi in una situazione intermedia, in cui le imprese magari riducono in parte il loro margine di profitto e i lavoratori aumentano la propria quota salari proporzionale. Detto altrimenti, il risultato finale di questa “lotta” lavoratore-capitalista dipende molto più verosimilmente dal contesto politico-istituzionale in cui avviene lo scontro. Un contesto in cui le leggi proteggono molto i lavoratori e nel quale i sindacati sono molto agguerriti e inflessibili potrebbe costringere le imprese a cedere il passo.
I salari reali italiani
Dopo questo excursus teorico cominciamo a mettere insieme i pezzi. Il primo dato dal quale partire è quello dei salari reali italiani. La parola chiave in questo caso è “reali”. Infatti, come spiega ancora Bill Mitchell, una distinzione fondamentale da tenere a mente quando si parla di salari dei lavoratori è quella fra salario monetario e salario reale. Il salario monetario è quello che viene a determinarsi sul mercato del lavoro e corrisponde all’ammontare di denaro che un lavoratore riceve dal proprio datore di lavoro nel corso di un certo arco di tempo (noi utilizzeremo come arco temporale un anno). Solitamente il salario monetario percepito dal lavoratore è il risultato di accordi sindacali fra imprese e lavoratori.
Mentre il salario monetario rappresenta semplicemente la quantità di denaro ricevuta per il proprio lavoro, il salario reale è definito in relazione alla quantità di beni e servizi che si possono acquistare in un determinato periodo con quel determinato salario monetario.
Per calcolare il salario reale basterà quindi “deflazionare” il salario monetario (che possiamo anche chiamare salario nominale) per l’indice generale dei prezzi al consumo (si tratta dell’indice le cui variazioni determinano quella che comunemente conosciamo come inflazione). Cosa significa “deflazionare”? Se per esempio nel corso di un anno il salario nominale di un lavoratore cresce di 10 e il livello generale dei prezzi al consumo cresce di 9, allora il suo salario reale risulterà cresciuto di 1, dal momento che all’incremento monetario corrisponde realmente la possibilità di acquistare maggiori beni e servizi rispetto a prima.
Bene, per calcolare i salari reali italiani abbiamo dunque bisogno di alcuni dati che possiamo prendere freschi freschi dal database Amecodella Commissione Europea online e da quello del Fondo Monetario Internazionale:
1) Il livello complessivo dei salari, che sono definiti come redditi da lavoro dipendente (in inglese Compensation of employees, total economy). Si tratta della somma di tutti i salari ricevuti complessivamente dai lavoratori nell’arco di un anno solare.
2) Il livello generale dei prezzi al consumo (in inglese Inflation, avarage consumer price index), che ci dice se e quanto in più o in meno rispetto all’anno precedente costa acquistare una certa quantità di beni e servizi.
3) Ovviamente capirete che è abbastanza irrilevante vedere qual è l’ammontare complessivo dei salari se non si sa fra quante persone viene divisa questa cifra. Perciò, un’analisi più accurata dovrebbe considerare non tanto l’ammontare complessivo dei salari, quanto il salario individuale di ogni lavoratore. Dunque, aggiungiamo alla lista il numero totale dei lavoratori dipendenti, dal solito database Ameco (in inglese Employees, persons: total economy).
In questo modo potremo, da una parte, ottenere il salario unitario (per ogni singolo lavoratore) e poi dividendolo per l’indice dei prezzi al consumo ottenere il salario reale di ogni lavoratore. Manca ancora un piccolo dettaglio. Dal momento che non ci interessa e non servirebbe a niente il dato annuale ma quello che ci interessa vedere è l’andamento storico, è necessario prendere un anno come anno di riferimento, anno base per il nostro indice dei prezzi al consumo. Io ho scelto il 2005. In questo modo il valore dei salari reali sarà espresso a prezzi costanti del 2005.
Ecco la tabella con tutti i calcoli (vi consiglio di aprirla in un’altra finestra, basta cliccarci sopra):
I numeri sono piuttosto eloquenti: in termini reali per trovare un livello salariale più basso del 2012 dobbiamo tornare indietro al 1990!!!
Ovvio che la botta fra 2011 e 2012 con un meno 3%, bottega del Mario Monti al grido “Più Europa!”, sia solo il percorso finale di un ventennio di crescita praticamente nulla dei salari reali (ricordo ancora che si parla di salari depurati dall’inflazione).
Prima di andare avanti a commentare direi di trasporre i numeri piuttosto ingombranti della tabella in un bel grafico. Molto più immediato (i calcoli li lascio per i maniaci dei numeri come me che magari scovano qualche errore) ed efficace.
Eccolo:
Credo che qualcuno sarà sorpreso di vedere, così come lo sono stato io inizialmente, che negli anni sessanta, settanta e, sia pur in misura minore, anche in quelli ottanta – sì quelli dell’inflazione a due cifre brutta e cattiva – i salari reali crescevano in maniera costante e quasi esponenziale anno dopo anno.
Non è un caso che il governatore della Banca d’Italia riconoscesse sostanzialmente questo fatto nelle sue Considerazioni finali del 1981(pag. 878-879), con un’importante aggiunta nel finale:
Si trattava, come molti di voi ormai sanno, di Carlo Azeglio Ciampi.
Direi che è abbastanza per oggi. Tenete a mente le sue ultime parole, perché da lì ripartiremo.
http://caneliberonline.blogspot.it/2013/07/i-salari-reali-italiani-un-ventennio.html
Questo post è il primo di una serie dedicata all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia. Cercheremo di capire come su di esso abbiano influito i vari shock di politica economica occorsi a partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario Europeo (SME), alle politiche fiscali intraprese dai governi che si sono succeduti, fino alla lunga fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro.
Sovranità monetaria e politica fiscale
Il punto centrale dal quale parte la Mosler Economics – Modern Money Theory è il concetto di sovranità monetaria. Ossia: 1) lo Stato è la prima entità che emette la moneta nell’atto della spesa pubblica, definendo in questo modo qual è la moneta di Stato e 2) quella valuta fluttua liberamente sul mercato dei cambi, cioè non è vincolata ad alcuna parità di cambio prestabilita e perseguita dalle autorità politiche e monetarie. Ovviamente, come spesso dico, si tratta di un requisito indispensabile per fare in modo che un governo possa applicare una politica fiscale in grado di apportare un beneficio all’intera collettività, cioè si tratta di una condizione sufficiente ma non necessaria: possibilità e volontà politica sono due concetti ben diversi e questo non va mai dimenticato.
Il mercato del lavoro
Facciamo un passo in avanti cercando di capire quale sia il rapporto fra politica fiscale e mercato del lavoro. Una prima considerazione piuttosto banale è che un governo che non dispone della piena sovranità monetaria, che è costretto pertanto a finanziarsi sul mercato, incontra un ostacolo notevole alla sua (eventuale) volontà politica di applicare politiche indirizzate al sostegno sia del livello della domanda in generale che, soprattutto, dei salari dei lavoratori. Per riassumere il concetto: se i soldi devo farmeli prestare e accettare le condizioni di prestito altrui può risultare più difficile proporre un certo tipo di politica economica.Ecco dunque che in una situazione del genere il mercato del lavoro viene lasciato a se stesso e alle sue dinamiche interne.
E per capirne le dinamiche è opportuno cercare di dare una definizione di mercato del lavoro. Come ci ricorda Bill Mitchell, economista dell’Univeristà di Leeds (Australia) e direttore del Center of Full employment and Equity, il mercato del lavoro va considerato prima di tutto come un costrutto sociale, che, in quanto tale, incorpora delle relazioni di potere. Queste relazioni di potere, ovviamente, non sono date e immutabili, bensì esprimono e riflettono il risultato di una “lotta” fra attori economici portatori di interessi diversi. Per dirla con Marx, da una parte abbiamo coloro che che vendono la propria forza lavoro (i lavoratori), dall’altra, coloro che acquistano questa forza lavoro (che possiamo chiamare in via generale capitalisti).
Queste due categorie sono fondamentalmente antagoniste, dal momento che i lavoratori vorrebbero essere pagati di più per lavorare il minor tempo possibile, mentre i capitalisti vorrebbero sborsare meno soldi per acquisire il maggior flusso possibile di prestazioni lavorative.
Il modello mainstream
Questo tipo di visione purtroppo viene oggi dal tutto sfumata, se non addirittura eliminata, nell’approccio mainstream (quello di stampo neoclassico).
Per esempio, nel famoso manuale di Macroeconomia di Olivier Blanchard (forse il più utilizzato nei corsi di economia politica nelle università italiane) pur essendo sottolineato e analizzato il peso della presenza di sindacati e di imprese dotate di gradi diversi di potere di mercato nel processo di contrattazione salariale, la conclusione teorica è che, in realtà, il conflitto salariale è dannoso per i lavoratori stessi.
L’idea neoclassica in soldoni è questa: supponiamo che i lavoratori diventino più rivendicativi e comincino a chiedere salari più elevati perché per esempio vengono introdotte leggi che li tutelano maggiormente oppure perché i sindacati che li rappresentano sono estremamente agguerriti; a questo punto, secondo Blanchard, le imprese reagiranno aumentando il livello dei prezzi, in modo da preservare il proprio margine di profitto; questo aumento dei prezzi effettivi indurrà i lavoratori a rivedere al rialzo il livello dei prezzi attesi, spingendoli a chiedere ulteriori aumenti salariali; ciò innescherà un’ulteriore reazione da parte delle imprese e così via. Ma non finisce qui, spiega sempre Blanchard: l’aumento dei prezzi e dei salari provocherà una diminuzione del valore delle scorte monetarie, e una conseguente corsa alla vendita di titoli per acquisire più moneta, che farà aumentare il tasso d’interesse e dunque diminuirà il livello di investimenti, produzione, domanda e quindi, in ultima battuta, provocherà un aumento della disoccupazione. A questo punto, l’aumento dei disoccupati costringerà i lavoratori a ricomporre le proprie rivendicazioni, che si uniformeranno necessariamente al salario reale offerto dalle imprese. Il nuovo equilibrio del mercato del lavoro ha così determinato un aumento della disoccupazione.
Cosa dovrebbero fare, quindi, i lavoratori? Beh, dice il modello mainstream, dovrebbero ridurre e moderare le loro pretese salariali. Infatti, se i salari reali domandati dai lavoratori diventano inferiori a quelli offerti dalle imprese, caleranno in maniera proporzionale anche i prezzi applicati dalle imprese stesse, quindi aumenterà il valore reale delle scorte monetarie e con esso la domanda di beni e servizi, il livello degli investimenti, la produzione e dunque anche l’occupazione.
Insomma, il modello mainstream, suggerisce apertamente che il conflitto salariale e le rivendicazioni sindacali sono dannose per il lavoratore stesso e quindi è opportuno a prescindere perseguire politiche di moderazione salariale. Il messaggio di fondo è dunque che il conflitto non paga, anzi. Il tutto si fonda poi naturalmente sul concetto di “equilibrio naturale”, ossia che esiste un livello naturale di produzione, salari, prezzi, disoccupazione a cui tende l’economia che non può essere scalfito in alcun modo.
Purtroppo, il modello mainstream non solo non regge di fronte alla realtà dei dati (come vedremo) ma incorpora in sé anche profonde ombre di tipo teorico (che volesse approfondire approfondire può vedere l’interessante saggio in italiano Anti-Blanchard di Emiliano Brancaccio).
Quali sono questi limiti (e ne elenco solo i principali):
Primo: Blanchard considera il margine di profitto applicato dalle imprese come un qualcosa di dato, di fisso, di costante e assume quindi che nel momento in cui le imprese acquisiscano una maggiore forza contrattuale nei confronti dei lavoratori non la usino per incrementare la loro quota profitti, invece di, come viene sostenuto, diminuire i prezzi. Capite bene che si tratta di una forzatura teorica piuttosto azzardata e che oltretutto sembra essere abbastanza irrealistica.
Secondo: il conflitto salariale, nella visione mainstream, si risolve con un adeguamento che viene imposto da parte delle imprese ai lavoratori, quando invece è molto più presumibile che un conflitto di questo tipo spesso tenda a stabilizzarsi in una situazione intermedia, in cui le imprese magari riducono in parte il loro margine di profitto e i lavoratori aumentano la propria quota salari proporzionale. Detto altrimenti, il risultato finale di questa “lotta” lavoratore-capitalista dipende molto più verosimilmente dal contesto politico-istituzionale in cui avviene lo scontro. Un contesto in cui le leggi proteggono molto i lavoratori e nel quale i sindacati sono molto agguerriti e inflessibili potrebbe costringere le imprese a cedere il passo.
I salari reali italiani
Dopo questo excursus teorico cominciamo a mettere insieme i pezzi. Il primo dato dal quale partire è quello dei salari reali italiani. La parola chiave in questo caso è “reali”. Infatti, come spiega ancora Bill Mitchell, una distinzione fondamentale da tenere a mente quando si parla di salari dei lavoratori è quella fra salario monetario e salario reale. Il salario monetario è quello che viene a determinarsi sul mercato del lavoro e corrisponde all’ammontare di denaro che un lavoratore riceve dal proprio datore di lavoro nel corso di un certo arco di tempo (noi utilizzeremo come arco temporale un anno). Solitamente il salario monetario percepito dal lavoratore è il risultato di accordi sindacali fra imprese e lavoratori.
Mentre il salario monetario rappresenta semplicemente la quantità di denaro ricevuta per il proprio lavoro, il salario reale è definito in relazione alla quantità di beni e servizi che si possono acquistare in un determinato periodo con quel determinato salario monetario.
Per calcolare il salario reale basterà quindi “deflazionare” il salario monetario (che possiamo anche chiamare salario nominale) per l’indice generale dei prezzi al consumo (si tratta dell’indice le cui variazioni determinano quella che comunemente conosciamo come inflazione). Cosa significa “deflazionare”? Se per esempio nel corso di un anno il salario nominale di un lavoratore cresce di 10 e il livello generale dei prezzi al consumo cresce di 9, allora il suo salario reale risulterà cresciuto di 1, dal momento che all’incremento monetario corrisponde realmente la possibilità di acquistare maggiori beni e servizi rispetto a prima.
Bene, per calcolare i salari reali italiani abbiamo dunque bisogno di alcuni dati che possiamo prendere freschi freschi dal database Amecodella Commissione Europea online e da quello del Fondo Monetario Internazionale:
1) Il livello complessivo dei salari, che sono definiti come redditi da lavoro dipendente (in inglese Compensation of employees, total economy). Si tratta della somma di tutti i salari ricevuti complessivamente dai lavoratori nell’arco di un anno solare.
2) Il livello generale dei prezzi al consumo (in inglese Inflation, avarage consumer price index), che ci dice se e quanto in più o in meno rispetto all’anno precedente costa acquistare una certa quantità di beni e servizi.
3) Ovviamente capirete che è abbastanza irrilevante vedere qual è l’ammontare complessivo dei salari se non si sa fra quante persone viene divisa questa cifra. Perciò, un’analisi più accurata dovrebbe considerare non tanto l’ammontare complessivo dei salari, quanto il salario individuale di ogni lavoratore. Dunque, aggiungiamo alla lista il numero totale dei lavoratori dipendenti, dal solito database Ameco (in inglese Employees, persons: total economy).
In questo modo potremo, da una parte, ottenere il salario unitario (per ogni singolo lavoratore) e poi dividendolo per l’indice dei prezzi al consumo ottenere il salario reale di ogni lavoratore. Manca ancora un piccolo dettaglio. Dal momento che non ci interessa e non servirebbe a niente il dato annuale ma quello che ci interessa vedere è l’andamento storico, è necessario prendere un anno come anno di riferimento, anno base per il nostro indice dei prezzi al consumo. Io ho scelto il 2005. In questo modo il valore dei salari reali sarà espresso a prezzi costanti del 2005.
Ecco la tabella con tutti i calcoli (vi consiglio di aprirla in un’altra finestra, basta cliccarci sopra):
I numeri sono piuttosto eloquenti: in termini reali per trovare un livello salariale più basso del 2012 dobbiamo tornare indietro al 1990!!!
Ovvio che la botta fra 2011 e 2012 con un meno 3%, bottega del Mario Monti al grido “Più Europa!”, sia solo il percorso finale di un ventennio di crescita praticamente nulla dei salari reali (ricordo ancora che si parla di salari depurati dall’inflazione).
Prima di andare avanti a commentare direi di trasporre i numeri piuttosto ingombranti della tabella in un bel grafico. Molto più immediato (i calcoli li lascio per i maniaci dei numeri come me che magari scovano qualche errore) ed efficace.
Eccolo:
Credo che qualcuno sarà sorpreso di vedere, così come lo sono stato io inizialmente, che negli anni sessanta, settanta e, sia pur in misura minore, anche in quelli ottanta – sì quelli dell’inflazione a due cifre brutta e cattiva – i salari reali crescevano in maniera costante e quasi esponenziale anno dopo anno.
Non è un caso che il governatore della Banca d’Italia riconoscesse sostanzialmente questo fatto nelle sue Considerazioni finali del 1981(pag. 878-879), con un’importante aggiunta nel finale:
Si trattava, come molti di voi ormai sanno, di Carlo Azeglio Ciampi.
Direi che è abbastanza per oggi. Tenete a mente le sue ultime parole, perché da lì ripartiremo.
http://caneliberonline.blogspot.it/2013/07/i-salari-reali-italiani-un-ventennio.html
3 commenti:
Nel testo non compare la parola....tasse.
... già, quella compare nella realtà!!!
si parla anche del 74% per chi ha partita iva, ma io credo, come sostiene anche Paolo Franceschetti, che se fai per bene i calcoli in realtà se a te rimane il 10% ti va già bene. Il fatto è che in molti nemmeno i calcoli sanno fare!
ti rimando al mio vecchio
Perché Lavoriamo facciamo due conti
http://fintatolleranza.blogspot.it/2011/03/perche-lavoriamo-facciamo-due-conti.html
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