Di Moreno Pasquinelli
Il mio articolo del 22 ottobre Perché questo mortorio sociale?, assieme all’encomio di molti, ha suscitato la perplessità di alcuni. Mi hanno tuttavia inquietato, più ancora che le critiche, alcuni malintesi apprezzamenti: “Bravo Pasquinelli, finalmente hai capito che la sollevazione di cui voi del Mpl tanto cianciate non è affatto all’ordine del giorno. Invece di prepararci allo sfracello, dedichiamoci ad una lunga a tranquilla attività di apostolato. Non c’è alcuna catastrofe in vista e di tempo davanti a noi ne abbiamo abbastanza.”
In effetti, dopo aver sottolineato che la sostanziale pace sociale dipende (anche) dal fatto che la maggioranza degli italiani gode ancora di un relativo e residuo benessere, scrivevo:
«Non dobbiamo nemmeno temere di dire cose antipatiche, o sconvenienti a tanti militanti antagonisti: il panico della catastrofe imminente, lungi dal risvegliare le masse dalla loro apatia, non solo rafforza la loro inerzia, a malapena nasconde la loro intima speranza che il sistema guarisca, che tutto ritorni come prima. Di qui alla fiducia che il salvatore della patria Mario Monti ce la faccia, il passo è breve».
Questo passaggio è forse la causa del qui pro quo, per cui avrei cambiato opinione riguardo a due punti cruciali del ragionamento che vado da tempo svolgendo: che la catastrofe sociale è ineluttabile, e che il suo approssimarsi getta le premesse di una sollevazione popolare.
Metodo e politica rivoluzionaria
Qui si confondono due processi, che sì sono concatenati, ma che in sede di analisi vanno tenuti distinti: la catastrofe sociale e la sollevazione. La prima ha a che fare con la crisi sistemica e il suo decorso, è quindi determinata anzitutto da cause oggettive, che prescindono dalla coscienza e dalla psicologia delle masse; mentre la sollevazione dipende anzitutto dall’azione, dalla volontà e dalla potenza politica di queste masse. Se sbaglia chi ritiene che tra i due fenomeni ci sia una meccanico rapporto causale, ovvero che la catastrofe susciti automaticamente la sollevazione, sbaglia a sua volta chi semplicemente rovescia la relazione causale e fa dipendere la catastrofe dalla sollevazione, e dunque la esclude vista l’attuale arretratezza e impotenza politica delle masse.
L’intelletto, come diceva Hegel, ci tiene a tenere separati e distinti i diversi fattori, la ragione dialettica, invece, vede la loro intima connessione. Crisi sistemica e psicologia delle masse non se ne stanno fisse nel loro empireo, mutano, e mutano nell’ambito della loro reciproca relazione, che ha piedi e testa nel mondo reale. Per capire come mutano e come cambia la loro relazione, occorre, come scrivevo: «Analisi concreta della situazione concreta, dalla quale dipendono linea politica e linea di condotta, che non devono basarsi sull’umore delle masse, per sua natura volatile, ma anzitutto sui fattori oggettivi. Ciò che conta è cogliere nella situazione la linea di tendenza principale e, della catena, quali sono gli anelli deboli destinati a spezzarsi per primi».
Quindi concludevo:
«Altra farina deve macinare il mulino della crisi prima che da un fuoco qua e là si passi all’incendio generale, alla sollevazione. Devono saltare le paratie difensive del sistema, fallire i dispositivi di salvataggio dell’Unione europea. Noi non abbiamo dubbi che questo avverrà, che chi sta in alto non riuscirà a far ripartire il motore grippato del capitalismo occidentale, europeo in particolare. Non riuscirà ad evitare lo sbocco “naturale” di questa crisi: una pauperizzazione generale delle masse con una contestuale concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta minoranza di possidenti, decisi a difendere ad ogni costo la loro supremazia, se serve anche sbarazzandosi del poco che resta della democrazia».
Come chiunque può comprendere non solo ribadivo che la tendenza oggettiva è quella alla catastrofe sociale, ma che questa potente e oggettiva forza motrice è destinata a incidere sulla psicologia delle masse, ad obbligarle a cercare una via d’uscita, a spingerle quindi all’azione. Tra i diversi fattori c’è una gerarchia, essi hanno un rango: i fattori oggettivi, in ultima istanza, impongono le loro ragioni.
La società si cambia grazie all’accumulo di forza materiale, facendo leva sui conflitti tra le diverse classi sociali; per questo sono decisivi l’indagine scientifica dei processi economici, l’inchiesta sociale, l’esame comparato dei fattori. Solo così possono avere luogo le individuazioni: quale, tra le tendenze in atto è quella determinante, quale classe o raggruppamento di classi possono trainare il passaggio da un sistema sociale ad un altro e quali, di converso, agiscono in senso contrario.
Senza queste individuazioni ogni messaggio politico poggerebbe sulla sabbia delle aspettative oracolari e non avrebbe credibilità ed efficacia. D’altra parte, posta questa disamina a basamento della prassi politica, resta il fattore tempo. Riconosciuta la tendenza che fa da forza motrice, occorre immaginare i tempi nei quali la tendenza principale non solo si manifesta apertamente e s’impone sulle altre, ma s’impone e si manifesta alla coscienza delle masse. Ognuno capisce che sarà diverso se io dico che la catastrofe s’avanza a dosi omeopatiche, sui tempi lunghi, o se, invece, affermo che essa s’afferma per strappi traumatici successivi e sui tempi brevi. Oppure un miscuglio tra le due eventualità. Comunque sia non esiste la possibilità di calcolare in maniera infallibile i tempi. A causa della molteplicità di fattori, spinte e soggetti che operano nella società, i tempi con cui certe tendenze fanno giungere i loro frutti a maturazione non si possono determinare con la stessa precisione con cui ad esempio un agronomo, misurata la curva degli zuccheri dell’uva, decide giunto il momento della vendemmia. Sui tempi politici si possono solo fare pre-visioni, ipotesi. Per quanto esse non abbiano valore cogente, pur tuttavia, queste ipotesi vanno fatte, sono uno degli elementi che concorrono a indirizzare la prassi.
Tabella n.1. Il crollo della produzione industriale in Italia (clicca per ingrandire)
Evidenze empiriche della catastrofe sociale
Noi non stiamo dicendo che la sollevazione è alle porte. Affermiamo invece con sicurezza che lo è la catastrofe sociale del nostro paese, anzi, diciamo che essa è già in atto.
Ciò non contraddice affatto l’analisi che svolgevo nell’articolo Perché questo mortorio sociale, quando sottolineavo l’ordine di grandezza della diffusa ricchezza mobiliare (risparmi e rendite) e immobiliari esistente in Italia. Il fatto è che i dati che riportavo vanno posti accanto alle piaghe sociali, alle privazioni e all’indigenza crescenti. Questo è il punto quando parliamo di tendenza dominante: che mentre la ricchezza accumulata in decenni tende a diminuire, la pauperizzazione tende di converso a crescere in tempi rapidi.
Ci sono i dati empirici a confermare la crescita, in profondità e larghezza, del pauperismo. Essi corroborano la nostra convinzione che il capitalismo italiano non è solo alle prese con una depressione di lunga durata, ma che ha imboccato la via di un inesorabile declino. [1] Dai dati empirici che ogni giorno la realtà ci consegna, ripetiamolo, noi ricaviamo che la tendenza dominante è quella alla catastrofe. Per la verità non solo noi. A ben leggere in controluce le mosse degli strateghi e dei grandi decisori sistemici, anch’essi sono giunti alle medesime conclusioni.
Il tessuto economico italiano (ciò anche a causa delle conseguenze degli squilibri commerciali e finanziari causati dall’adesione all’euro, ma su questo abbiamo scritto abbastanza) conosce uno sfacelo senza precedenti. La crisi finanziaria propagatasi dagli Stati Uniti nel 2007-2008 con la bolla dei subprime è stato il colpo letale che ha messo a nudo la fragilità, tra gli altri, del capitalismo italiano. La conseguente crisi dei debiti sovrani in Europa lo ha definitivamente messo con le spalle al muro. L’economia italiana è la sola che, entrata in recessione nel 2008, non ne sia mai uscita di fatto. Se il Pil procapite è sceso in pochi anni del 10%, la produzione industriale è crollata di ben il 23,2%! Una cifra peggiore di quella che conobbe dopo il crollo del 1929. [2] Servirebbe dunque una “ripresa” poderosa, che non si intravede, affinché il manifatturiero recuperi le posizioni di 5 anni fa. Si fa presto a capire anche ove avessimo una “crescita” dell’ordine dell’1% annuo del Pil l’Italia è desinata al declino.
Come hanno risposto le tetragone oligarchie europee? Accentuando le politiche neoliberiste di rigore che, via euro, avevano già penalizzato l’economia italiana. Queste politiche di austerità penitenziale non solo corrispondono agli interessi di un capitalismo oramai iper-finanziarizzato che pur grippato ha pienamente colonizzato completamente la sfera economica e sociale, esse ubbidiscono ad un disegno: nella spietata competizione globale si deve far leva sulla “competitività” e cioè, al netto degli arzigogoli, abbassando drasticamente i salari e tagliando verticalmente la spesa pubblica. Così facendo il liberista Monti pensa di assolvere il compito supremo affidatogli dalla speculazione finanziaria internazionale: riconsegnare all’Italia la qualifica di paese ottimo pagatore, di debitore affidabile. Ed è appunto per non far scappare i creditori internazionali, ciò che in poche settimane affonderebbe il debito italiano e con esso la moneta unica, che Monti si è fatto garante della austerità più spietata: i biscazzieri del capitalismo casinò continueranno a prestare soldi al capitalismo italiano alla condizione che questo sia “competitivo”, ovvero che riesca a succhiare al popolo lavoratore tutto il plusvalore possibile, che quindi i governi garantiscano che si tirerà diritto sulla Via crucis dell’austerità.
Monti mente quindi spudoratamente quando afferma che l’austerità è solo temporanea e che non ci saranno nuove manovre di tagli. A sbugiardarlo ci ha pensato il 27 novembre l’Ocse, che non ha solo smentito le previsioni del governo “tecnico” revocando in dubbio sia il pareggio di bilancio che la riduzione di deficit e debito, ma ha tagliato l’outlook dell’Italia.[3] Mentono tutti i suoi sodali, la sua corte mediatica e, primi fra tutti, i partiti che lo sostengono, tra cui il Partito democratico di Bersani le cui lacrime di coccodrillo non possono nascondere l’adesione di quest’ultimo al disegno strategico neoliberista. L’eventuale futuro governo Bersani non farà di meglio di quello Monti, sarà obbligato a continuare su solco tracciato, se non a fare peggio in caso, altamente probabile, di nuova tempesta finanziaria.
Tabella n.2 La disoccupazione in Italia (clicca per ingrandire)
Ma vediamo, tanto per dimensionare la catastrofe, i risultati di un anno di governo montiano.
Ce lo dice l’Istat: «Cresce a livelli record la disoccupazione in Italia: a ottobre il numero dei senza lavoro è salito a 2milioni 870mila con un incremento su base annua del 28,9%: si tratta di ben 644mila unità di lavoro in più. (…) Mentre per i giovani in età compresa fra i 15 e i 24 anni l’incidenza dei disoccupati è pari al 60,5% con un aumento tendenziale del 5,8%. (…) Nelle regioni meridionali, la disoccupazione giovanile raggiunge il 41,7% per i ragazzi e del 43,2% tra le ragazze». [4]
Gli stessi dati Istat segnalano un aumento molto forte del lavoro precario: «Nel terzo trimestre sono 2.447.000 i dipendenti a termine, di cui 1.760.000 a tempo pieno e 687mila a tempo parziale, a cui si aggiungono 430mila collaboratori: in totale 2.877.000 lavoratori, il massimo dal terzo trimestre del 2004». [5]
Al dramma della disoccupazione e della precarietà va aggiunto quello della cassa integrazione, che senza “ripresa” è anticamera del licenziamento. [6]
Questo nel contesto delle recessione che oramai riguarda tutta l’eurozona, Germania compresa. Sono oltre 2 milioni i posti di lavoro persi in un solo anno. Per l’esattezza i disoccupati sono a quota 18,7 milioni, 2,17 milioni in più rispetto a dodici mesi prima. Coi dati agghiaccianti della disoccupazione in Spagna, 26,2%, quella giovanile al 55,9%; in Grecia siamo al 25%, in Portogallo al 16,3%. [7]
Questo drammatica ferita inferta al corpo del popolo lavoratore —tratteremo in altra sede dell’impoverimento che subiscono gli strati di piccola e media borghesia che stanno sul mercato, testimoniato dal crollo dei consumi e dall’aumento esponenziale dei fallimenti delle piccole imprese manifatturiere e commerciale— dev’essere vista anche dal lato del capitale.
Tabella n.3. Flussi finanziari da Sud a Nord Europa (clicca per ingrandire)
Posti di lavoro che si perdono non sono solo conseguenza di aziende che ristrutturano (cosa che può essere sintomo di una recessione momentanea). Il sintomo più infallibile che siamo dentro un declino lungo periodo è il fenomeno oltre ai fallimenti, delle imprese considerate “sane” che hanno chiuso i battenti. Per “sane” sono da intendersi quelle che producono profitti e quindi accesso al mercato dei capitali e al credito. Secondo i dati di Cerved Group dall’inizio della depressione sono ben 40mila le imprese che hanno chiuso. Perché accade? Queste aziende vengono liquidate per crearne di nuove altrove, fuori dal paese, dove i capitalisti vedono prospettive di profitto durature. Il fenomeno della delocalizzazione.
«E’ ragionevole che la riallocazione di imprese [notare l’eufemismo, Nda] italiane profittevoli verso mercati più dinamici avvenga più intensamente proprio durante questa recessione perché ha rivelato in modo ancor più netto l’esistenza di una grave gap di crescita del nostro paese». [8]
Questa sfiducia nelle possibilità di ripresa dell’economia italiane non solo spinge i capitali a scappare, ma quelli esteri a non metterci piede.
Sulle nuove divisioni di classe nel capitalismo casinò
Questi sono solo alcuni macroscopici dati empirici che fotografano una situazione sociale che ogni giorno diventa più drammatica per ampie fasce della popolazione. Non tutte tuttavia. E qui sta il punto.
Non voglio sfuggire alla domanda che un lettore, andando al sodo, mi ha posto: «Analisi corretta ma conclusione deludente. A che livello di impoverimento dobbiamo arrivare, noi povere masse, prima di sollevarci»?
Due premesse sono necessarie.
La sollevazione non è, di per sé, una rivoluzione, poiché per rivoluzione, intendiamo un mutamento voluto della struttura sociale e politica. La qual cosa implica un’adesione di ampie masse ad un progetto alternativo di società, e quindi una partecipazione consapevole al processo di trasformazione sociale. Per sollevazione intendiamo un moto di ribellione popolare, una rivolta generale che, pur non avendo un fine prestabilito, almeno rovescia chi sta in alto e punta a demolire il vecchio ordinamento politico sociale. Non hai una rivoluzione se non passi prima per la porta stretta della sollevazione popolare.
La seconda premessa è questa. Siamo d’accordo o no che la tendenza è alla pauperizzazione del popolo lavoratore? Siamo d’accordo o no che questa tendenza, oltre ad essere il risultato necessitato della crisi storico-sistemica, è anche la terapia cercata dalle oligarchie tecno-finanziarie nostrane? Se non concordiamo sul fatto che questa è la tendenza obiettiva, ogni discorso girerebbe a vuoto e, come minimo, non si può afferrare il succo di quanto diciamo.
A che livello di pauperizzazione occorre arrivare affinché ci sia la sollevazione? Non è possibile dare una risposta irrefutabile a questa domanda. Date alcune condizioni, se porto l’acqua a cento gradi, so con certezza che bollirà e, avendo note la quantità di liquido e la potenza del calore, posso addirittura stabilire il momento in cui inizierà a bollire. Le dinamiche sociali sono un po’ più complesse di quelle del mondo fisico. Tutta l’importanza di individuare la tendenza (alla catastrofe sociale) sta nel fatto che si può agire in modo rivoluzionario per contrastarla, aiutando le masse a costruire la fuoriuscita da questo sistema. Vi sono, tuttavia, altri soggetti che agiscono in senso contrario, per agevolare la stessa tendenza e volgerla ai loro fini, tra questi tutti gli apparati oligarchici, statuali e politici della classe dominante. Noi riteniamo, come del resto insegna il caso fresco fresco della Grecia, che la sollevazione popolare non solo è possibile ma altamente probabile. Diventerà meno probabile se in tempi ragionevolmente brevi non daremo vita e forma ad un fronte della sollevazione popolare.
Per stare al punto: contrariamente alla favoletta di Occupy Wall Street, non sarà affatto il 99% a sollevarsi. Non tutte la fasce della popolazione avranno interesse a ribellarsi. Compito dei rivoluzionari è capire quali saranno le fasce che si mobiliteranno e quelle che agiranno da freno, se non addirittura come avversarie. Per questo occorre mettere bene a fuoco come tre decenni di capitalismo casinò hanno modellato la struttura di classe della società.
Un altro lettore mi diceva:«Considerare le classi sociali in base al loro ruolo nel sistema di produzione è un modo di vedere datato che va superato. Le classi sociali si distinguono in base al loro senso di appartenenza non alla quantità o tipo di reddito».
Appunto. Come chi ci segue sa bene, noi siamo molto lontani da certi marxisti (economicisti) per i quali è sufficiente, per riconoscere una classe, il posto che questa occupa nella struttura economica della società, la cosiddetta classe in sé. Sono gli stessi, questi economicisti, che per spiegare come mai il proletariato abbia come destino quello di portarci al comunismo, ricorrono ad una metafisica del soggetto, per cui il proletariato assolverà la sua missione a dispetto della sua coscienza. È evidente che non è così, che una classe non è tale se non ha consapevolezza dei suoi propri interessi. Come un essere umano, che se non ha coscienza di esserlo, ovvero un essere storico-sociale, è solo un mero organismo biologico.
Pur tuttavia, per stare alla metafora, non è che un medico, posto davanti ad un uomo malato che tra l’altro sia convinto di essere una gatto e si comporti come tale, sia autorizzato a curarlo come fosse un felino. La fisologia ha la sua indiscutibile importanza.
Il punto di partenza per capire la società è svelare la sua fisiologia. Una fisiologia, quella della società capitalistica, che è dinamica, mutante. La struttura sociale dei paesi imperialisti già da tempo non era più quella dell’Inghilterra che Marx aveva sotto gli occhi. Il declino delle forze produttive non si ebbe, le classi intermedie erano aumentate invece di sparire, i settori di aristocrazia operaia che ricevevano un reddito ben superiore a quanto necessario per sopravvivere cresciuti a dismisura, al posto del pauperismo avemmo il fenomeno dell’imborghesimento.
Quel modello sociale keynesiano-fordista con welfare diffuso da tempo è in via di smantellamento. Esso è stato rimpiazzato da quello che noi preferiamo chiamare capitalismo casinò. [9] In molti altri articoli abbiamo spiegato quale sia la sua architettura formale: un sistema fondato sulla rendita finanziaria. Il vecchio sistema imperialista si basava sulla fusione, via banche, tra capitale finanziario e quello industriale. Ora il settore finanziario-bancario ha soggiogato quello industriale. A questo modello corrisponde una nuova fisiologia della società, una nuova composizione di classe. Prima di vedere come il capitalismo casinò ha mutato la società, trasformato le classi, plasmato la loro psicologia e rideterminato loro comportamenti collettivi, vogliamo spendere poche parole sulla sua sostanza.
Inceppatasi la lunga fase espansiva postbellica [10] il sistema capital-imperialista ha dovuto trovare una maniera per non soccombere alle sue proprie contraddizioni. Ha trovato questa maniera con una scoperta che rassomiglia all’Uovo di Colombo. Il profitto è sì la molla che muove la macchina del capitale, ma solo in quanto esso può trasformarsi in denaro, suprema e astratta forma della ricchezza. E dato che fare profitti ed estrarre plusvalore costa fatica, ecco che il capitale ha optato per la scorciatoia della pura speculazione, di fare e ammucchiare denaro attraverso il denaro — il denaro come tesoro che viene tesaurizzato fuggendo dal circuito della produzione reale e da quello della circolazione. Il capitale non ha inventato niente, la rendita l’ha trovata accanto a sé bell’e fatta. Dopo averla guardata in cagnesco per secoli, dopo averla condannata come usura parassitaria, il capitale si è convertito ed essa, gli ha venduto l’anima.
Questo processo, prima di espandersi ad ogni latitudine, prese il via oltre Manica e oltre oeceano. Grazie ad un habitat favorevole e all’appoggio dei governi neoliberisti di Reagan e della Teatcher e delle banche centrali, il capitale, nella forma di denaro liquido si è avventato su tutto ciò che, capitatogli a tiro, poteva fruttare guadagno. Gli investimenti in capitale costante e variabile si sono spostati progressivamente sui titoli (rappresentazioni fantasmagoriche delle merci), fino al fenomeno diabolico delle cartolarizzazioni e dei derivati. Le borse sono diventate, ad iniziare da quelle di Wall Street e della City, i templi in cui la rendita tutto sacrificava in nome del Dio denaro. Veniva così nascendo (con l’ausilio della macchina info-telematica) la nuova casta sacerdotale tecnocratica, quella dei brockers e dei grandi manager bancari, preposta al culto del nuovo “dogma trinitario” [11]: denaro, credito, interesse. Nuovi mostri, i fondi finanziari, prendevano forma nel brodo primordiale della inforendita. Questo passaggio determinava un mutamento profondo del sistema, prendeva forma quello che ho definito metacapitalismo. [12] Alla tradizionale figura del capitalista operante che usava sì il denaro, che acquistava e vendeva merci, ma per ricavarne un plusvalore per mezzo del processo di produzione, si affiancava il “capitalista monetario parassita”, dedito a prestare denaro per ottenerne un interesse campando così di rendita, senza quindi entrare mai nel ciclo della produzione, volteggiando nella sfera della circolazione monetaria per poi inquattarsi come tesoro depositato nei forzieri —di qui l’attuale trappola della liquidità: la montagna di denaro consegnata dalla banche centrali se ne sta ferma nei caveau della banche d’affari.
Tabella n.4. Il crollo della produzione industriale italiana per singoli settori. Nel 2012 le curve sono discese. (clicca per ingrandire)
Soggiogati i governi, l’oligarchia rentier otteneva che i titoli di debito pubblico degli Stati diventassero prodotti finanziari e venissero gettati sui mercati. Una vera gallina dalla uova d’oro. Nasceva un sistema micidiale di rapina con cui spostare la ricchezza monetaria diffusa (risparmi) dalla tasche dei cittadini, da certi settori, da certi Stati, ai caveau delle banche. Ha tutto l’aspetto di una stregoneria quella per cui, nei mercati finanziari, il debito, diventato titolo negoziabile, ingrassa chi se lo passa di mano in mano, strozzando chi lo ha emesso e fregando chi se lo trova in mano per ultimo. La merce-debito, come aveva già segnalato Marx [13] non ha un valore di scambio, il suo prezzo dipende dall’irrazionale gioco della domanda e dell’offerta, dalle aspettative di rialzo —guadagno assicurato fino a quando le aspettative salgono, fino a quando tutto crolla a causa delle prime fughe. Un gigantesco sistema Ponzi. Se da qualche parte qualcuno guadagna senza lavorare dev’esserci dall’altra qualcuno che lavora senza guadagnare.
Con queste modificazioni della struttura economica è mutata tutta la sovrastruttura della società. Questo sistema ha quindi infettato tutto il corpo sociale. Centinaia di milioni di cittadini, proletari compresi, sono finiti per invischiarvisi. Non parliamo solo di coloro che si sono messi a giocare in borsa, a comprare e vendere obbligazioni e azioni. Con le privatizzazioni dei sistemi pensionistici la stragrande maggioranza dei lavoratori si è trovata nella situazione per cui il valore della pensione attesa dipende ora dal buon andamento del suo fondo pensione, dalle sue scommesse nella bisca. Avendo gettato sul mercato i titoli di debito pubblico nella stessa situazione si trova la massa sterminata di pensionati, il cui reddito viene a dipendere dalle performance dei mercati finanziari e degli spread, ovvero, anche in questo caso dal rigore, cioè dal rispetto da parte dello Stato dei suoi strozzini creditori. Vi sono infine centinaia di milioni di cittadini che avendo affidato i loro risparmi (che altro non sono che rendite) alle banche, esigono che siano remunerativi di interesse, e per questo sono appesi alla abilità con cui la banca gioca d’azzardo i suoi quattrini sui mercati finanziari. [14]
E’ nato un popolo-rentier, una nuova forma tentacolare di consociativismo interclassista. È sorta di conseguenza una specifica coscienza sociale: la psicologia egoistica del creditore il quale esige che il debitore, chiunque esso sia, quali che siano le sue condizioni, onori il suo contratto di debito. Mors tua, Vita mea. Non stupiamoci quindi se la maggioranza dei tedeschi sta con la Merkel, e nemmeno se tanti greci non vogliono abbandonare l’euro. Sono due facce della stessa medaglia.
C’è quindi una linea trasversale che taglia in due l’intera società, la diagonale che divide i creditori dai debitori. Cadono, dall’una e dall’altra parte, interi pezzi di tutte le classi fondamentali. Una linea non immaginaria che spezza in due la stessa classe proletaria, anche su base anagrafica, tra la vecchia generazione che si attende che la sua rendita pensionistica non vada in fumo, e quella giovane e precaria, costretta a sgobbare affinché alla prima siano resi gli interessi.
Il diagramma qui sopra è solo un tentativo di visualizzare questa frattura sociale creditori-debitori, frattura che ci aiuta a spiegare i diversi atteggiamenti politici dei diversi strati sociali. La diagonale non è ovviamente una muraglia, e non cancella le tradizionali divisioni di classe. Ma le ridisegna e le ricolloca su un diverso piano.
Alain Greenspan un giorno affermò: «Un americano indebitato è un americano che non sciopera». Questo sarà forse vero in America. Non è vero qui. Qui è vero il contrario “un europeo creditore (che attende che gli siano devoluti rendita ed interessi) non sciopera” e, sotto sotto, fa parte di quella schiera di filistei che qui in Italia compongono la maggioranza silenziosa pro Monti. Lo dimostra la mappa delle proteste sociali che attraversano il Sud Europa non invece il Nord.
Qui da noi non si ribellerà il popolo-rentier. Si ribelleranno le giovani generazioni che nulla hanno da perdere e un futuro da guadagnare mandando a gambe all’aria il sistema immorale in cui viviamo. Esse saranno la leva che solleverà quella gran parte del corpo sociale sofferente, che trascinerà nel gorgo tutti i proletari veri, quelli che vino solo della vendita della loro forza-lavoro, che non hanno rendite e santi in paradiso, come pure tanti piccolo e medio borghesi che il capitalismo casinò ha gettato in disgrazia.
Una sollevazione che non prende ancora forma perché la crisi epocale del sistema di capitalismo casinò è solo agli inizi, perché troppo ampia è ancora la massa amorfa del popolo-rentier. Ma la tendenza alla catastrofe significa appunto questo: che il capitalismo casinò sta tirando le cuoia, che questa stessa massa, attraverso le politiche predatorie dei dominanti, subirà un inevitabile processo di pauperizzazione, spostandola sulla parte destra del diagramma. Sarà allora che per i dominanti si apriranno le porte dell’inferno.
Note
[1] Il quadro di lungo periodo dipinto dall’Ocse sul futuro dell’economia italiana, per quanto edulcorato, se letto dalla giusta angolatura, la dice lunga:
«La crescita italiana sarà anemica: la media del Pil sarà del 1,3% l’anno tra il 2011 e il 2030 seguita dall’1,5% nei venti anni successivi. La crescita media del Pil procapite sarà ancora inferiore situandosi allo 0,9% nel 2011-2030». Emanuele Scarci, Il Sole 24 Ore del 10 novembre 2012.
Un simile calcolo lascia ovviamente il tempo che trova, tenendo conto che l’Ocse prende in considerazione solo un fattore, pur importante, l’invecchiamento della popolazione italiana, che esercita una pressione al ribasso sulla produttività di sistema. Notiamo di passata che in base a questi stessi numeri il paese sarà ben lungi dall’uscire dalla spirale del debito e che il rischio di insolvenza è all’uscio.
[2] Centro studi di Confindustria; in Il sole 24 Ore del 10 novembre 2012
[3] «L’Italia potrebbe avere bisogno di una nuova manovra e si trova a fare i conti con il maggior calo dei consumi dalla seconda guerra mondiale. A lanciare l’allarme e’ l’Ocse che ha tagliato l’outlook per il nostro paese. Le previsioni dell’Organizzazione di Parigi sono piu’ pessimiste di quelle del governo. Secondo l’Ocse, il Pil nel 2013 calerà dell’1%, contro la flessione dello 0,4% stimata in precedenza.? Per il prossimo anno l’esecutivo ha previsto una contrazione pari ad appena lo 0,2%. L’Organizzazione ha inoltre rivisto al ribasso le stime per il 2012, con il Pil che è ora previsto in calo del 2,2%, contro la flessione dell’1,7% stimata lo scorso maggio. Il deficit dovrebbe scendere al 3% del Pil quest’anno e al 2,9% nel 2013. L’esecutivo nella Nota di aggiornamento al Def aveva invece stimato un indebitamento netto pari al 2,6% quest’anno e all’1,6 il prossimo. Alla luce della nuova previsione l’Italia, sottolinea l’Ocse, potrebbe avere bisogno di una nuova stretta fiscale nel 2014 per rispettare l’obiettivo di una riduzione del debito al 119,9% del Pil nel 2015». AGI, 28 novembre 2012
[4] Rossella Bocciarelli, Il Sole 24 Ore del 1 dicembre 2012
[5] Rossella Bocciarelli, Ibidem
[6] Ha affermato il presidente Inps, Antonio Mastrapasqua il 5 novembre scorso: «La richiesta di cassa integrazione continua ad essere più alta nel 2012 rispetto all’anno scorso. Il confronto tendenziale non si discosta dai dati precedenti, attestandosi su un incremento delle richieste nei primi dieci mesi dell’anno che supera il 10%». «Ad ottobre sono stati autorizzati 103 milioni di ore di cassa integrazione con un aumento del 19,3% rispetto a settembre e del 20,6% rispetto a ottobre 2011. Nei primi 10 mesi sono stati autorizzati 895 milioni di ore di cassa (+10,1% sul 2011) e si va verso lo sfondamento di quota un miliardo». www.inps.it Stiamo parlando, dati di ottobre di circa 500mila lavoratori che hanno perso in busta paga 2.600 euro. Considerando tutti i lavoratori che sono andati in Cig ordinaria, straordinaria e in deroga, siamo attorno ad un milione.
[7] Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore del 1 dicembre 2012
[8] Luigi Guiso, Guido Romano, Il Sole 24 Ore del 1 dicembre 2012. I nostri apologeti del capitalismo aggiungono: «La scomparsa delle imprese sane rafforza il declino perché sono proprio queste che innovano, che creano e alimentano la crescita della produttività. La scarsa crescita scaccia le imprese buone e la loro fuoriuscita spegne il motore della crescita».
[9] Diversi sono i neologismi utilizzati per nominare il mostro: neoliberismo, turbo-capitalismo, finzanzcapitalism.
[10] Sulle cause della crisi del lungo ciclo espansivo postbellico abbiamo trattato in molti articoli. Segnaliamo solo questo: Alle origini del declino dell’Occidente
[11] Questa efficace analogia è di Massimo Amato e Luca Fantacci: Come salvare il mercato dal capitalismo. Donzelli Editore, Giugno 2012. testo utili da leggere, malgrado i nostri abbiano una strana idea del denaro, che non considerano merce e se la prendano dunque, non col denaro e il suo essere rappresentante astratto e simbolo della ricchezza, ma con la “liquidità”.
[12] «Il capitale esiste come capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione, ma soltanto nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro». K. Marx, Il capitale. Volume III. Quinta sezione. Il capitale produttivo d’interesse. p.13
[13] K. Marx Ibidem. p. 28
[14] Un esempio lampante di come gli stessi operai fossero stati afferrati dal meccanismo della speculazione si ebbe negli Stati Uniti. Eravamo negli anni ’80, gli anni della profonda crisi del polo automobilistico di Detroit. Gli operai della GM entrarono in sciopero contro i licenziamenti e chiesero la solidarietà di quelli della Ford, ma non la ottennero. Questi ultimi avevano devoluto i loro risparmi ad un Fondo che a sua volta aveva investito in azioni della GM. Azioni il cui valore stava risalendo in borsa proprio a causa dell’attivazione da parte della GM del piano di licenziamento.
link: http://sollevazione.blogspot.it/2012/12/la-catastrofe-sociale-e-la-sollevazione.html
http://www.oltrelacoltre.com/?p=14719
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