Come ogni anno il sole di Settembre è tornato pallido.
Come ogni anno lo studente è tornato sui banchi.
Come ogni anno il mercato delle droghe leggere è tornato in moto.
E così, finita l’estate, finiti i servizi televisivi sulle creme abbronzanti, finiti gli articoli di giornale sul caldo record, si è tornati a parlare delle solite emergenze da copertina di Studio Aperto: bullismo, cani violenti, democrazia.
Vogliamo parlare di democrazia?
O di cani violenti?
Come se fossero cose diverse, tra l’altro.
No, oggi parleremo di bullismo.
Dovremmo essere favorevoli in quanto cristallina espressione della selezione naturale?
Oppure dovremmo essere contrari in quanto gli studenti non hanno più nulla da farsi rubare?
Dovremmo essere favorevoli in quanto soggiogare psicologicamente una sedicenne cicciona per farsi succhiare il cazzo tutti i giorni è un gioco da ragazzi?
Oppure dovremmo essere contrari perché… no, ok, siamo favorevoli.
Non capivo perché, non sapevo cosa avessi fatto di male, ma da sei mesi venivo perseguitato a scuola da un ragazzo della mia classe.
Ogni giorno era sempre la stessa storia: vessazioni e umiliazioni di fronte a tutti i miei compagni.
“Lo sai cos’è la legge Mammì?”
“No”
“Ahahah!!! Che mammoletta!”.
Cercai di reagire e mi spiegò per filo e per segno che la legge Mammì consentì a Berlusconi di agire indisturbato senza alcun tetto antistrust, e i ragazzi di tutta la classe scoppiarono a ridere.
Un giorno mi umiliò nei bagni obbligandomi a calarmi le braghe e a disegnarmi con l’uniposca una faccina simpatica sulla punta del cazzo.
Un’esperienza che ha segnato la mia vita.
Fu grazie a lui che scoprii la mie doti di ritrattista.
Continuai a subire la sua prepotenza per tutto l’anno.
Ogni mattina lui e i suoi amichetti mi obbligavano a svuotare lo zaino per farsi consegnare il pranzo che i miei genitori, la sera prima, mi avevano preparato con tanto amore.
“Te lo restituisco solo se mi dici il nome del giudice corrotto per la sentenza Mondadori!”
Non potevo oppormi, se avessi difeso la mia peperonata mi sarei fatto male da solo, e loro mi avrebbero picchiato comunque.
Gli altri miei compagni di classe avrebbero voluto reagire, ribattere con le attenuanti generiche e l’incensurabilità con cui più volte si era salvato Berlusconi, ma erano terrorizzati che gli altri se la potessero prendere anche con loro chiedendo delle ultime indagini sull’estorsione di Dell’Utri o sulla trattativa Stato-mafia, materia in cui i bulli erano imbattibili. Così lasciavano fare, guardandomi con compassione.
Io avevo paura e non osavo confidarmi con nessuno. Avevo paura di parlarne ai miei perché tremavo al pensiero che mio padre venisse a conoscenza della mia ignoranza riguardo alle leggi ad personam.
Tornavo a casa pesto, spesso col sangue che colava dal naso, ma inventavo sempre goffe e patetiche scuse, come cadere contro una porta o sbattere sulle scale. Scuse a cui, naturalmente, i miei non credevano.
Ero triste e solo.
Il mio carattere cominciò a cambiare e mi vennero strani tic nervosi: muovevo rapidamente gli angoli della bocca come Luttazzi, mi leccavo forsennatamente le labbra come Travaglio, gesticolavo ridicolmente come Vauro, e ancora di più divenivo oggetto di scherno da parte di quei bulli.
Le cose degenerarono ulteriormente.
Una mattina il bullo si avvicinò al mio banco e, dopo avermi ruttato in faccia i peperoni del giorno precedente mi disse:
“Dì a quella escort di tua madre che deve togliere la pelle ai peperoni, altrimenti si rinfacciano!”.
Così dissi a mia madre che preferivo comprarmi direttamente la merenda a scuola: ebetamente dolce come sempre non se la prese e cominciò a darmi una paghetta per le mie piccole necessità. Nel momento in cui il bullo non trovò più niente nella mia cartella si infuriò e pretese i miei soldi. Io non ne avevo moltissimi, mi servivano solo per una merendina a scuola per tutta la settimana: davo comunque tutto ciò che avevo, proprio per essere lasciato in pace. Ma quando non avevo soldi da dare iniziava a farmi le solite domande:
“È vero che Berlusconi non è stato mai condannato?”
“Non lo so, non mi sono informato.”
“Lo sai cos’è un’amnistia?”
“No…”
“Lo sai che tua madre lavora alla All Iberian?”
“Prendi tutto quello che vuoi ma lasciami in pace!”
Invece mi colpì la nuca mediante quello che all’epoca, non so come si dica adesso, definivamo “coppino”. Tutti risero. Poi vide il mio cellulare appoggiato vicino al portapenne, era uno dei primissimi esemplari, un Nokia con il gioco dello Snake che tutti mi invidiavano, e lo prese per ammirarlo compiaciuto. “Oh, questo mi servirebbe proprio”. Se lo ficcò in tasca e si allontanò, non prima di avermi rifilato un altro colpo alla nuca. Un altro coppino. Tutti risero di nuovo.
Poi tornò alla lavagna e riprese a parlarci di calcolo vettoriale come se nulla fosse, il bastardo.
Il bullismo non esiste. Sono io che faccio schifo.
Il bullismo non esiste. È che la merendina poi si mette tutta sui fianchi.
Il bullismo non esiste. E poi sempre meglio che buttare cicche a terra.
Il bullismo non esiste. E fare apnea dentro la tazza del cesso mi aiuta a tenere sotto controllo l’asma.
“McFly, che ti venga il Parkinson!”
(Biff Tannen, 5.11.1955)
Da piccolo tutti mi scherzavano per il colore della mia folta chioma rossa. “Peli di carota-Peli di carota”. “Anna dai capelli rossi va…”. “Sei come Malpelo, malizioso e cattivo, un fior di birbone!”. Un giorno mi incazzai così tanto che per sbollire la rabbia dovetti ammazzare di botte il mio compagno di banco, Ranocchia. Alla ricreazione andai in bagno. Lì incontrai il bulletto della III^ C che mi domandò: “Ma anche i peli del cazzo sono rossi?”. Abbozzai un sorriso amaro e rimasi in silenzio.
Sono passati tanti anni da quell’episodio, pensavo di averlo perso di vista per sempre, lo stronzo della III^ C. Invece me lo sono ritrovato adulto qualche giorno fa durante una partita a calcetto. Lui ovviamente non ricordava niente. Ma io sì, tutto, ed avevo dentro una rabbia che mi faceva ancora male.
Durante la partita normali contrasti di gioco, fair play quando prese una pallonata. Mi avvicinai e gli carezzai anche il viso. Poi, negli spogliatoi, maturai la mia vendetta. Vicino alle docce, lui era già nudo, io indossavo solo gli slip.
“Ehi Fabio, rispondo ora a quella tua domanda rimasta inevasa per troppo tempo”.
Mi sfilai le mutande.
E fu allora che mi ricordai delle ceretta inguinale.
Lo ricordo ancora, come se fosse ieri. Alle medie ero il più piccolo della classe e, ulteriore aggravante, andavo bene a scuola. L’ora di ginnastica si era trasformata in un incubo. Nella mia classe c’erano due ripetenti e due pluriripetenti, e alle medie quegli anni in più si trasformavano in molti centimetri d’altezza e svariati chili di peso. Una differenza abissale. Ormai non avevano neanche più bisogno di chiamarsi: bastava un’occhiata, un ghigno, e iniziava la mia tortura. Mi piombavano addosso, mi sollevavano di peso, uno per arto, e tenendomi sdraiato a mezz’aria mi proiettavano a gambe divaricate verso la pertica della palestra. Un dolore che non vi dico. Dieci minuti a terra, rannicchiato che sembravo una palla medica. Un giorno, finalmente, ho deciso di ribellarmi. Incurante delle minacce, mi sono rivolto al professore di ginnastica. Cercavo la sua autorevolezza per porre fine a tutto. E, magari, vedere quei quattro puniti, o addirittura sospesi.
“Professore, i miei compagni X, Y, Z e K mi fanno lo scherzo del palo!”.
“Lo scherzo del palo?”, mi domanda il prof., che stava compilando il registro.
“Sì, prof., mi prendono per le braccia e le gambe e mi fanno sbattere contro la pertica con le palle”.
Ecco, finalmente ero riuscito a dirglielo. A sfidare quattro rozzi e stupidi energumeni, forti solo dei loro muscoli e del loro disprezzo. Il professore alza lo sguardo corrucciato. E, finalmente, si rivolge a me.
“Tu? Tu avresti cosa? Le PALLE?”.
E giù una gran risata.
Ho sempre odiato i bulli.
Odiavo quelli che mettevano le mani addosso agli altri ragazzini solo per dimostrare la loro superiorità. Ragazzini che avevano come unico difetto quello di non essere bestie decerebrate come loro.
Li ho odiati. Profondamente.
Tuttavia, pur essendo io quello più grosso della classe, non ho mai alzato un solo dito contro di loro. Non avrei mai voluto essere come loro, mai e poi mai.
Essendo il più grande e il più cattivo, se avessi alzato le mani, mi sarei trasformato anch’io in un animale, incapace di anteporre alle mie pulsioni primitive le ferree regole della logica.
Non sono caduto nel tranello.
Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, ho continuato ad assistere schifato al perpetuarsi di ogni sorta di ignominia nei confronti dei miei compagni di classe.
Più gli scherzi e le umiliazioni erano feroci, più io scuotevo la testa e mi chiudevo nel mio silenzio.
Nessuno osava venirmi contro, né chiedermi alcunché.
Il mio atteggiamento era chiaro:”non mi sporcherò le mani con voi, merde, ma sappiate che vi disapprovo”.
Quando finii il liceo, fu per me davvero un sollievo, finalmente ero libero di andare all’università e non vedere più certa gente.
Ora la mia è una bella vita, ho studiato molto, ho lavorato molto, ma finalmente sono diventato quello che fin da bambino ho sempre sognato di essere: il Segretario dell’ONU.
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