"THE END"

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mercoledì 4 luglio 2012

I termini della questione: capitalismo, sconvolgimenti climatici e criceti


Cominciamo con un paradosso. Il “meraviglioso mondo nuovo” dell’omonimo romanzo di Aldous Huxley che dà il titolo a questa rubrica (a sua volta l’autore citava William Shakespeare), lungi dall’essere un luogo in cui il coraggio di governi e cittadini ha dato vita ad una società equa ed in armonia con l’ambiente, somiglia piuttosto, in modo inquietante, ad un sistema in cui regnano autoritarismo, consumismo e finto benessere (per alcuni) come mezzi di controllo sociale, nonché di dominio della natura da parte dell’uomo.
Proseguiamo con l’ipotesi che il cambiamento sia possibile, e che un modello positivo di mondo nuovo sia un legittimo e necessario obiettivo da raggiungere, peraltro anche con una certa fretta. Cos’è che non va nel nostro modello? Perché non funziona né dal punto di vista ambientale né da quello sociale e, anzi, stanno venendo meno sempre più velocemente le condizioni minime di sopravvivenza per milioni di persone e per interi territori del pianeta?
Un modello come quello dominante, basato su sovrapproduzione e sovraconsumo, che ha come unico obiettivo il profitto di pochi grandi poteri economici, come maggiordomi i governi, e come strumenti la privatizzazione delle risorse naturali e sociali di base (aria, acqua, energia, istruzione, sanità), lo sfruttamento e la precarizzazione delle vite dei cittadini, con la loro riduzione – quando va bene – a passivi consumatori, non può che creare sconvolgimenti ambientali e sociali.
E’ un modello energivoro, che dalla rivoluzione industriale in poi ha determinato l’impennata dell’utilizzo dei combustibili fossili e l’aumento progressivo e ormai vertiginoso del rilascio di CO2 nell’atmosfera (oggi nell’ordine di 6 miliardi di tonnellate l’anno, che, insieme ai 2 dovuti alla deforestazione, fanno il doppio di quanto è naturalmente assorbibile). Ne è conseguito il riscaldamento globale, che, ipotizzato per la prima volta dallo scienziato svedese Arrhenius alla fine del XIX secolo, già dalla fine degli anni ’50 ha iniziato a preoccupare gli studiosi del clima.


Questo modello sta provocando l’aumento della temperatura degli oceani, l’innalzamento del livello del mare e la conseguente erosione di territori, lo scioglimento di nevi e ghiacciai, eventi meteorologici estremi, siccità e desertificazioni, riduzione della biodiversità, perdita di fertilità dei suoli e riduzione di colture e pescato per la sussistenza delle piccole comunità. Sono decine di milioni i profughi ambientali e centinaia di milioni gli individui minacciati. E non solo nei Paesi in via di sviluppo. Non dimentichiamo, infatti, che questa corsa alla produzione e al profitto è altresì responsabile di mali ben noti anche ai Paesi “ricchi”, tra cui l’avvelenamento di aria, acqua e suoli dovuto a centrali a combustibili fossili, impianti nucleari, industrie inquinanti, rifiuti tossici.

In un breve ed efficace video che circola in rete, per questo modello di sviluppo viene usata la metafora dell’ “impossible hamster”, il “criceto impossibile”, la cui crescita è per il pianeta assolutamente insostenibile.
Tuttavia, il “criceto” con cui abbiamo a che fare è per natura portato alla distruzione delle risorse. Non conosce altra via. La risposta, dunque, non è la mediazione, il trovare cioè una formula verde – o verdognola – che tuteli primariamente i profitti: proprio per questo non cambierà direzione né sostituirà l’etica al guadagno. L’unica soluzione è sostituire il “criceto” con un altro animale, ovvero un altro modello.
Un sistema totalmente diverso, in cui ci sia responsabilità collettiva sulle decisioni politiche e di produzione. In cui venga usata esclusivamente energia pulita da fonti rinnovabili per produrre ciò che è riconosciuto come necessario. In cui energia e beni circolino in condizioni di prossimità, limitando costi e rischi ambientali. In cui i prodotti della terra siano coltivati, fruiti e disposti da parte di chi la terra la vive e la lavora. In cui la gestione del denaro e delle risorse primarie naturali e sociali siano gestite in forma pubblica e partecipativa. E in cui la tecnologia e l’innovazione servano a favorire tutti questi processi. La globalizzazione di queste pratiche è l’unica auspicabile. Chiamatela ecosocialismo o buon senso. La sostanza non cambia.

Giovanna Tinè

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