"THE END"

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sabato 30 marzo 2013

Capitalismo come religione



di Giorgio Fontana

Leggere Capitalismo come religione di Walter Benjamin (appena edito da il Melangolo) può sembrare soltanto un esercizio di memoralistica, o un vuoto sforzo intellettuale. Il capitalismo del 1921 – l’anno in cui il filosofo tedesco quando prese questi appunti – era molto diverso da quello contemporaneo: ancora non aveva subito l’onda della grande crisi, e soprattutto non era passato attraverso le successive, numerose metamorfosi. Cosa possono insegnarci quattro pagine scarne di novant’anni fa sul momento storico che stiamo vivendo?

Certo, il modo migliore per leggere questo frammento è quello di prenderlo con tutte le cautele del caso. La prosa di Benjamin è incisiva e oscura insieme – un’ottima scusa per lasciarsi prendere dall’entusiasmo e vedere in essa l’interpretazione compiuta di un genio, o una lezione da applicare tout court. Ciò detto,Capitalismo come religione ha comunque una sua attualità straordinaria – forse proprio per il suo messianismo così distante dall’urgenza con cui si vuole e si dovrebbe pensare il mondo contemporaneo: in termini sociali ancora prima che economici, ma di certo senza alcuna presunzione metafisica.

Eppure, è proprio questo capitalismo tardo, sopravvissuto alle guerre e ai movimenti, passato attraverso il filtro della società dello spettacolo e reincarnato in chiave informazionale, a porci la domanda: com’è possibile? Come ha fatto a sopravvivere attraverso queste mutazioni? Come ha fatto a essere l’unico meccanismo completamente globalizzato, a divorare dall’interno anche le ultime sacche di resistenza? Tale estensione di dominio merita un’analisi non solo genealogica o puramente pratica: ed è qui che la chiave di lettura di Benjamin torna a essere uno strumento vivo: perché si interroga sul senso profondo (e il destino stesso) di tale sistema.


Il punto di partenza del filosofo è che il capitalismo è “un fenomeno essenzialmente religioso”. Si tratta di un’ipotesi che non viene argomentata, e che anzi Benjamin rifiuta di provare per evitare di cadere in una “smisurata polemica universale” – augurandosi che in futuro “ne avremo una visione d’insieme”. (L’abbiamo ora? Non credo).

La supposta religiosità del capitalismo – con cui Benjamin supera d’un colpo le analisi di Weber del fenomeno come solo legato allo sviluppo religioso del calvinismo – si produce lungo quattro linee fondamentali:

1. Il capitalismo è una religione totalmente cultuale. Non c’è dogmatica e non c’è teologia: ogni sua manifestazione si riduce all’esecuzione di un culto (ovvero di una serie di azioni simboliche).

2. Il rito del capitalismo è senza termine. Non esiste riposo perché non esiste separazione fra la sfera religiosa e quella laica: non c’è giorno feriale, nel calendario capitalista.

3. Tale culto non offre redenzione (e nemmeno consolazione): si avvita semplicemente su sé stesso producendo Schuld – una parola tedesca che significa sia “colpa” che “debito”, e sulla cui ambiguità ruota gran parte dell’analisi di Benjamin.

4. Il Dio del capitalismo è un Deus absconditus per eccellenza: siccome non c’è redenzione, la divinità è spinta eternamente lontano, eternamente al limite: la sua visione e la salvezza non sono dunque contemplate.

Il punto essenziale è il primo – ed è anche il più spaventoso. Qualsiasi religione comporta un margine di dubbio al suo interno: anche la fede più spinta si nutrirà sempre di una forma di critica e autocoscienza. Non così il capitalismo: il problema della sua coerenza, della sua giustificazione e della sua teodicea è del tutto assente: si opera secondo rito – accumulo del denaro, speculazione, sfruttamento – senza che questo rito comunichi o simboleggi altro. Il capitalismo rimanda solo a sé stesso, e il “dispiegamento di tutta la pompa sacrale” e “l’estrema tensione che abita l’adoratore” sono permanenti e non necessitano di alcun sant’Agostino o di alcun Pascal: si impongono brutalmente a chiunque. Con una torsione logica davvero senza precedenti, riesce a essere una religione del tutto immanente – fondata com’è sulla materialità – e al contempo inabissata in una trascendenza assoluta – quel Dio mai raggiungibile, che non redime nulla, che non salva nessuno. Conclusione: “la religione non è più riforma dell’essere, ma la sua rovina”.

Il problema centrale è che secondo Benjamin non si può venire a capo del problema tramite semplice abiura. Il capitalismo non si spezza con un “No” isolato: tale gesto funziona per qualsiasi altra confessione, la cui natura è strettamente individuale, ma non per esso: perché non esiste luogo al riparo da questa “malattia dello spirito”. Oltre il capitalismo l’abiuratore troverà ancora il capitalismo. (Scrive Benjamin che le “inquietudini” – questa veste esistenziale ancora prima che psicologica, così tipica della nostra epoca – nascono proprio dall’assenza di vie d’uscita reali per la comunità).

Il monachesimo “errante” che può generare l’abiura è solo la testimonianza di una disperazione, non una via d’uscita: il singolo che si rifugi in un eremo con dei compagni e viva senza mai più essere “schiavo del sistema” (quante volte abbiamo sognato un sogno simile?) non muta di una virgola il resto del cosmo capitalista.

Che fare, dunque?

Al netto delle difficoltà interpretative (il testo è breve, come detto, e per metà composto da semplici annotazioni), l’idea di Benjamin è abbastanza chiara. Per spezzare il circolo religioso – e dunque per questo assoluto e assolutizzante – occorre un rovesciamento (Umkehr) completo, che avrebbe a che vedere con un gesto autenticamente politico, autenticamente comunitario.

Come spiega bene Carlo Salzani nell’introduzione al testo, si tratta di “riuscire a pensare una politica profana e che profani la religione capitalistica”: macchiare la purezza gelida del culto del profitto e riportare il discorso su un piano interamente umano. Ma è ancora un pensiero possibile, oggi? Non rischia di sembrare una favola dal sapore messianico? Tutte le cautele e i dubbi che ponevo all’inizio tornano di colpo. Il sistema capitalistico, oggi, è tanto più mostruoso perché allarga sempre di più la faglia di diseguaglianza fra chi possiede, decide, specula, e chi invece viene spogliato di qualsiasi dignità e diritto. Il rispetto formale, sempre più annunciato e perseguito, è la marionetta agitata dalla mancanza di un pensiero (prima ancora che una politica fattiva) di uguaglianza sociale. Tutto questo non è una novità, così come non è una novità la fallacia di tutte le forme di resistenza classiche al capitalismo.

Ma allora forse hanno senso delle nuove possibilità, meno radicali, di resistenza? Avrebbe senso lo svuotamento del capitalismo dall’interno, una sua erosione lenta e basata su pratiche di condivisione comunitaria locale? Si può ridare linfa quantomeno al bisogno disperato ed eterno di Umkehr che ogni operaio e operatore di call center sottopagato e finta partita IVA e bracciante sfruttato miseramente, senza illuderlo con paroloni e manifesti vuoti?

Chissà. Ma se anche il “rovesciamento” ipotizzato da Benjamin – con quel suo sapore tipicamente messianico, quasi fosse la buona novella che pone fine a una falsa religione – fosse impossibile a tutti i livelli, resta preziosa l’intuizione di fondo del filosofo, e il metodo che ci consegna: non smettere di interrogarsi con ogni forza sul capitalismo, e non limitarsi a considerarlo solo come un sistema politico, economico e sociale – bensì anche come una forma di fede monolitica e priva di dubbi. Con tutta la cecità e la perversione che una simile fede può portare.

fonte: Minimaetmoralia
letto su: L’Intellettuale Dissidente

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