DI PABLO ORDAZ – 17 FEBBRAIO 2014
PUBBLICATO IN: SPAGNA
TRADUZIONE DI ITALIADALLESTERO.INFO
Per vedere una Vespa a Roma bisogna rifarsi a quella guidata da Gregory Peck con Audrey Hepburn, insieme ai manifesti colorati (si è mai vista una tale eresia? ) che vendono i pachistani nei dintorni della Fontana di Trevi o del Colosseo, anche loro testimoni di un paese che crolla. L’Italia che in questi giorni guarda con preoccupazione alla fuga della Fiat (non esiste metafora più dolorosa della caduta dell’impero industriale italiano) aveva già deciso da molto tempo che i motorini giapponesi, con le ruote più grandi e i prezzi più bassi, sono più affidabili quando si tratta di fronteggiare quotidianamente la pazzia del traffico.
Per questo motivo, sommerso fino al collo dalla piena della globalizzazione, Donato Costa, 59 anni, esodato, padre di un giovane laureato disoccupato e zio di un’ingegnera che è dovuta emigrare in Germania, assicura che la fuga della Fiat non è un problema di sentimenti nè di patriottismo ferito. “A me – dice mentre aspetta nella stazione Termini un treno ritardato dal temporale – non importa molto che la nuova sede sia in Olanda, che paghi le tasse in Inghilterra o che sia quotata a New York. Quello che veramente mi preoccupa è che per mantenere gli stabilimenti che rimangono qui ci obbligano a essere pagati come polacchi.”
E’ molto curioso che domandando quà e là, leggendo un po’ i giornali, praticamente nessuno attribuisce tutta la colpa ai manager della Fiat, né a John Elkann, l’erede di Gianni Agnelli nato a New York, né a Sergio Marchionne, l’amministratore delegato italocanadese nemico delle cravatte, sulla decisione di andarsene. La fusione con la Chrysler consolida il gruppo come il settimo costruttore mondiale di automobili, e davanti ad opportunità così, nessuno si sarebbe aspettato che i padroni del capitale avrebbero esitato a spezzare una storia che era iniziata nel 1899 con la nascita della Fabbrica Italiana Automobili Torino (FIAT) o che ringraziassero lo Stato Italiano di tutti i soldi spesi per salvare gli stabilimenti in decadenza.
Pertanto il problema più grave non è che ora la FIAT abbia cambiato il nome in FCA (Fiat Chrysler Automobili) e nemmeno che in tutto ciò risparmierà una bell’ammontare di tasse come avviene per le più grandi aziende tecnologiche. La cosa più preoccupante è che, invece di rappresentare la spinta, l’innovazione, il gusto e addirittura l’azzardo di un paese che un tempo era disposto a mangiarsi il mondo, si sia trasformata nel simbolo di un tessuto sociale in costante liquidazione. Il trasferimento della FIAT, oltre ad essere un brutto colpo per il patrio orgoglio, ha messo gli italiani di fronte a uno specchio che restituisce loro un’immagine terribile.
“Il nostro vero problema” scriveva giovedì sul Sole 24 Ore Luigi Zingales, professore di finanza all’università di Chicago “ non è che la FIAT voglia trasferirsi all’estero, ma che molte aziende seguiranno il suo esempio e, soprattutto, che pochissime vogliano fare il contrario (…)
Ma non solo le imprese. Solo nel 2013, 9.000 giovani laureati hanno lasciato l’Italia, e quanti ne sono venuti? Le università degli Stati Uniti sono piene di ricercatori italiani (si parla di circa 15.000) e lo stesso vale per l’Inghilterra e addirittura la Spagna. Quanti stranieri ci sono nelle nostre università?”. Le parole del professor Zingales, che purtroppo possono applicarsi anche alla Spagna, si chiudono in un cerchio sconfortante. “Lo stesso discorso vale per i manager. Sei delle dieci più grandi aziende non finanziarie inglesi hanno un amministratore delegato straniero. In Italia nessuna.
L’unico settore che sembra disposto ad attrarre stranieri di talento è il calcio. Se il nostro paese attrae solo disperati e chi non ha la fortuna di poter scegliere, la nostra rabbia non può rivolgersi contro la FIAT, ma contro noi stessi per aver tollerato (se non favorito) un sistema economico che premia i peggiori ed esclude i migliori”. Le preoccupazioni non finiscono qui. La fuga della FIAT, la stessa che Elkann e Marchionne definirono “un passo storico”, è stata ufficializzata mercoledì scorso, anche se la vera notizia, la pericolosa miniscrittina, non ci sarà fino a maggio. Allora, quando Elkann e Marchionne renderanno pubblico il nuovo piano del gruppo e, di conseguenza, il destino dei sei stabilimenti italiani e delle loro migliaia di operai. A nessuno viene da dire che, al margine delle fusioni strategiche o delle operazioni per pagare meno al fisco, c’è un dato terribile: nel 2013, gli stabilimenti FIAT in Italia, con una capacità produttiva di un milione e mezzo di veicoli l’anno, ne producono solo 400.000, dei quali se ne sono venduti solo 340.000. Nel 1990 si producevano quasi due milioni di auto. Le perdite 2013 ammontano a 911 milioni di euro.
“Questo è solo l’inizio” afferma Donato Costa, “la FIAT cesserà di essere italiana come non lo sono più altre aziende di punta. E importiamo addirittura l’olio! Per 20 anni siamo stati molto presi dal gioco della politica, senza renderci conto, o senza che volessimo rendercene conto, del fatto che il paese stava cadendo a pezzi. Ora, a forza di colpi, ci stiamo svegliando, ma quello che chiamavamo “il bel paese” non esiste più. Quell’epoca felice è ferma in una foto in bianco e nero.”
(pubblicato il 1° febbraio 2014)
[Articolo originale "Fiat golpea el orgullo de Italia" di Pablo Ordaz]
TRADUZIONE DI ITALIADALLESTERO.INFO
Per vedere una Vespa a Roma bisogna rifarsi a quella guidata da Gregory Peck con Audrey Hepburn, insieme ai manifesti colorati (si è mai vista una tale eresia? ) che vendono i pachistani nei dintorni della Fontana di Trevi o del Colosseo, anche loro testimoni di un paese che crolla. L’Italia che in questi giorni guarda con preoccupazione alla fuga della Fiat (non esiste metafora più dolorosa della caduta dell’impero industriale italiano) aveva già deciso da molto tempo che i motorini giapponesi, con le ruote più grandi e i prezzi più bassi, sono più affidabili quando si tratta di fronteggiare quotidianamente la pazzia del traffico.
Per questo motivo, sommerso fino al collo dalla piena della globalizzazione, Donato Costa, 59 anni, esodato, padre di un giovane laureato disoccupato e zio di un’ingegnera che è dovuta emigrare in Germania, assicura che la fuga della Fiat non è un problema di sentimenti nè di patriottismo ferito. “A me – dice mentre aspetta nella stazione Termini un treno ritardato dal temporale – non importa molto che la nuova sede sia in Olanda, che paghi le tasse in Inghilterra o che sia quotata a New York. Quello che veramente mi preoccupa è che per mantenere gli stabilimenti che rimangono qui ci obbligano a essere pagati come polacchi.”
E’ molto curioso che domandando quà e là, leggendo un po’ i giornali, praticamente nessuno attribuisce tutta la colpa ai manager della Fiat, né a John Elkann, l’erede di Gianni Agnelli nato a New York, né a Sergio Marchionne, l’amministratore delegato italocanadese nemico delle cravatte, sulla decisione di andarsene. La fusione con la Chrysler consolida il gruppo come il settimo costruttore mondiale di automobili, e davanti ad opportunità così, nessuno si sarebbe aspettato che i padroni del capitale avrebbero esitato a spezzare una storia che era iniziata nel 1899 con la nascita della Fabbrica Italiana Automobili Torino (FIAT) o che ringraziassero lo Stato Italiano di tutti i soldi spesi per salvare gli stabilimenti in decadenza.
Pertanto il problema più grave non è che ora la FIAT abbia cambiato il nome in FCA (Fiat Chrysler Automobili) e nemmeno che in tutto ciò risparmierà una bell’ammontare di tasse come avviene per le più grandi aziende tecnologiche. La cosa più preoccupante è che, invece di rappresentare la spinta, l’innovazione, il gusto e addirittura l’azzardo di un paese che un tempo era disposto a mangiarsi il mondo, si sia trasformata nel simbolo di un tessuto sociale in costante liquidazione. Il trasferimento della FIAT, oltre ad essere un brutto colpo per il patrio orgoglio, ha messo gli italiani di fronte a uno specchio che restituisce loro un’immagine terribile.
“Il nostro vero problema” scriveva giovedì sul Sole 24 Ore Luigi Zingales, professore di finanza all’università di Chicago “ non è che la FIAT voglia trasferirsi all’estero, ma che molte aziende seguiranno il suo esempio e, soprattutto, che pochissime vogliano fare il contrario (…)
Ma non solo le imprese. Solo nel 2013, 9.000 giovani laureati hanno lasciato l’Italia, e quanti ne sono venuti? Le università degli Stati Uniti sono piene di ricercatori italiani (si parla di circa 15.000) e lo stesso vale per l’Inghilterra e addirittura la Spagna. Quanti stranieri ci sono nelle nostre università?”. Le parole del professor Zingales, che purtroppo possono applicarsi anche alla Spagna, si chiudono in un cerchio sconfortante. “Lo stesso discorso vale per i manager. Sei delle dieci più grandi aziende non finanziarie inglesi hanno un amministratore delegato straniero. In Italia nessuna.
L’unico settore che sembra disposto ad attrarre stranieri di talento è il calcio. Se il nostro paese attrae solo disperati e chi non ha la fortuna di poter scegliere, la nostra rabbia non può rivolgersi contro la FIAT, ma contro noi stessi per aver tollerato (se non favorito) un sistema economico che premia i peggiori ed esclude i migliori”. Le preoccupazioni non finiscono qui. La fuga della FIAT, la stessa che Elkann e Marchionne definirono “un passo storico”, è stata ufficializzata mercoledì scorso, anche se la vera notizia, la pericolosa miniscrittina, non ci sarà fino a maggio. Allora, quando Elkann e Marchionne renderanno pubblico il nuovo piano del gruppo e, di conseguenza, il destino dei sei stabilimenti italiani e delle loro migliaia di operai. A nessuno viene da dire che, al margine delle fusioni strategiche o delle operazioni per pagare meno al fisco, c’è un dato terribile: nel 2013, gli stabilimenti FIAT in Italia, con una capacità produttiva di un milione e mezzo di veicoli l’anno, ne producono solo 400.000, dei quali se ne sono venduti solo 340.000. Nel 1990 si producevano quasi due milioni di auto. Le perdite 2013 ammontano a 911 milioni di euro.
“Questo è solo l’inizio” afferma Donato Costa, “la FIAT cesserà di essere italiana come non lo sono più altre aziende di punta. E importiamo addirittura l’olio! Per 20 anni siamo stati molto presi dal gioco della politica, senza renderci conto, o senza che volessimo rendercene conto, del fatto che il paese stava cadendo a pezzi. Ora, a forza di colpi, ci stiamo svegliando, ma quello che chiamavamo “il bel paese” non esiste più. Quell’epoca felice è ferma in una foto in bianco e nero.”
(pubblicato il 1° febbraio 2014)
[Articolo originale "Fiat golpea el orgullo de Italia" di Pablo Ordaz]
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