Se fossimo in un filmaccio di propaganda proibizionista degli anni ’30, la vittoria dei referendum dello scorso 6 novembre (entrambi con il 56% dei voti) a Washington e in Colorado per legalizzare l’uso ricreativo della marijuana avrebbe dovuto far sprofondare gli Stati Uniti nell’anarchia, trascinandoli in un mix letale di sballo, sesso estremo, stupri e omicidi.
Qualcosa del genere, per intenderci.
Nonostante la canapa sia sempre più tollerata a livello locale, con 18 stati che permettono la coltivazione per usi teraupeutici, a livello federale la cannabis è equiparata (anche penalmente) a eroina, cocaina, metanfetamina e altre droghe pesanti. Stando all’Fbi, nel solo 2011 ci sono stati 757,969 arresti legati alla marijuana, l’87% dei quali per mero possesso – uno ogni 42 secondi, in base ai calcoli del Marijuana Policy Project.
Tuttavia, la ultra-trentennale tolleranza zero del governo Usa non ha funzionato un granché. I consumatori di marijuana si aggirano sulle 20-30 milioni di persone, gli spinelli rollati all’anno sono circa 6 miliardi (in aumento, per giunta) e il mercato nero crea un giro d’affari pari a circa 30 miliardi di dollari. Non stupisce, dunque, che un recente sondaggio della Quinnipiac University abbia rilevato come la maggioranza degli americani (il 51%; tra i 18-29 anni il supporto arriva al 69%) sia favorevole a depenalizzazione e legalizzazione della sostanza, anche e soprattutto per motivazioni economico-fiscali. Lo Stato di Washington, infatti, ha stimato che i proventi della vendita legale di marijuana – grazie ad una tassa del 25% – porterebbero un miliardo di dollari all’anno nelle casse statali.
«La speranza – scrive Fabrice Rousselot di Libération – è che l’Amministrazione Obama non cominci una battaglia legale per far valere la legge federale e che, al contrario, trasformi gli stati di Washington e Colorado in dei “laboratori”». I segnali dal mondo politico, però, sembrano andare nella direzione opposta. Il governatore del Colorado, John Hickenlooper (democrat), subito dopo il voto di novembre ha dichiarato: «Gli elettori hanno deciso e dobbiamo rispettare la loro volontà. Sarà un processo complicato, ma intendiamo andare sino in fondo. Ad ogni modo, le norme federali stabiliscono che la marijuana è ancora una droga illegale». Il Dipartimento di Giustizia è stato ancora più lapidario: «L’applicazione del Controlled Substances Act rimane invariata».
Dopo oltre una settimana di silenzio, Il 14 dicembre Obama ha detto che colpire i consumatori nei due Stati non è più una «priorità» per le forze dell’ordine, dato che ci sono «pesci più grandi da prendere». Al contempo il Presidente non sostiene né l’idea di un cambiamento radicale della legge federale, né l’uso stesso di marijuana. «Resto della convinzione che l’abuso di sostanze stupefacenti non vada bene per i nostri ragazzi e per la società in generale. Voglio scoraggiare il consumo di droga».
In effetti, la repressione contro coltivatori (che operano in una zona grigia) e distributori non è mai venuta meno. Barack Obama, scrive Tim Dickinson su Rolling Stone, «ha ordinato molti più raid nei confronti dei coltivatori rispetto a quanto ha fatto George W. Bush, e ha minacciato di mettere sotto processo i funzionari pubblici che si occupano di marijuana per usi terapeutici come se fossero dei signori della droga». Kevin Sabet, direttore del Drug Policy Institute dell’Università di Florida ed ex consulente dell’esecutivo proprio in materia di canapa, è convinto che il tema della legalizzazione non abbia molti simpatizzanti all’interno della Casa Bianca. A partire dal vicepresidente Joe Biden, l’uomo che ha coniato il termine «zar antidroga» (drug czar): «Il vicepresidente – afferma Sabet – ha un interesse particolare su questo tema. E finché rimarrà al suo posto saremo molto lontani dalla legalizzazione».
Sulla canapa, insomma, il governo americano è sia «impotente che onnipotente». «Impotente» perché non può imporre agli Stati di perseguire una sostanza non più illecita (entro certi limiti) – salvo ingaggiare, appunto, una sfiancante battaglia legale. «Onnipotente» perché, teoricamente, gli Stati Uniti sono ancora in piena guerra contro la droga. Una delle ragioni sottese alla linea dura del governo, secondo Tim Dickinson, è che «agenzie federali come la Dea sono piene di falchi che hanno costruito le loro carriere sulla lotta alla marijuana». A riguardo lo scrittore Don Winslow – autore de Il potere del cane, capolavoro assoluto sullaWar on Drugs – è stato ancora più duro:
Abbiamo creato una gigantesca burocrazia antidroga, a livello federale, statale e locale (in aggiunta al sistema correzionale). Questa burocrazia tende a perpetuare se stessa, e quindi ha interesse che la guerra alla droga continui all’infinito. […] Sia ben chiaro, l’establishment antidroga e i cartelli hanno un rapporto simbiotico: per sopravvivere dipendono l’uno dall’altro. Sono allo stesso tempo nemici mortali e grandi amici. E il circolo è davvero vizioso.
Ironicamente, infatti, «se Obama riuscisse a svuotare di contenuto le nuove leggi statali, essenzialmente farebbe gli interessi dei cartelli stranieri» (Rolling Stone). Uno studio del think tank Instituto Mexicano Para la Competitividad ha stimato che la legalizzazione di marijuana toglierebbe ai cartelli tra il 22 e il 33 percento dei profitti annuali derivanti dal traffico di droga.
Messi di fronte a questa storica evoluzione statunitense, le autorità dei Paesi sudamericani (quelli cioè più colpiti dalla violenza della criminalità organizzata) hanno cominciato ad interrogarsi seriamente sulle loro politiche proibizioniste. A cominciare dal Messico, dove da 6 anni è in corso una ferocissima guerra al narcotraffico che ha causato più di 80mila morti. Le dichiarazioni a Time del nuovo presidente messicano, Enrique Peña Nieto, sono state chiare: «[la legalizzazione in Colorado e Washington] apre lo spazio per ripensare la nostra politica antidroga. […] Questo non vuol dire che il governo messicano improvvisamente cambi quello che sta facendo ora…Ma sono favorevole a un dibattito emisferico sull’efficacia della guerra alla droga».
L’ex Ministro degli esteri Jorge Castañeda ha mostrato la propria insofferenza in un’intervista ad una radio messicana: «Perché dobbiamo fermare di continuo camion carichi di marijuana in Messico quando in alcuni stati degli Usa la vendono legalmente? È illogico. È schizofrenico.» Il presidente colombiano Juan Manuel Santos, uno dei più stretti alleati di Obama nella regione, è più o meno sulla stessa linea d’onda di Nieto. Otto Pérez Molina, presidente del Guatemala, ha avanzato la proposta di legalizzare la marijuana. José Mujica, presidente dell’Uruguay, sta spingendo per legalizzare la marijuana prima della fine dell’anno. Anche Costa Rica, Honduras e Belize sono favorevoli a rivedere la strategia internazionale sul contrasto alla droga.
Il voto del 6 novembre ha così fatto cadere un tabù radicato a livello mondiale da quasi un secolo. Anne Coppel, sociologa francese e autrice del saggio Drogues, sortir de l’impasse, ha notato su Libérationcome «non ci sia più la volontà internazionale di far applicare le convenzioni internazionali. Se, ora come ora, l’Uruguay o il Marocco optano per la legalizzazione, chi potrà impedirglielo? Finora gli Stati Uniti hanno indicato la via. Se non lo fanno più, tutto diventa possibile».
Nel giugno 2011 la Commissione Globale per le Politiche sulla Droga (composta da ex capi di Stato, imprenditori, scrittori e attivisti) aveva messo nero su bianco che
La guerra globale alla droga è fallita, con conseguenze devastanti per gli individui e le società di tutto il mondo. Cinquanta anni dopo la Convenzione Unica delle Nazioni Unite sugli Stupefacenti, e a 40 anni da quando il presidente Nixon lanciò la guerra alle droghe del governo americano, sono urgenti e necessarie riforme fondamentali nelle politiche di controllo delle droghe nazionali e mondiali.
Per capire a quale grottesco stadio di assurdità sia arrivata la guerra alla droga basta vedere quello che è successo tra il Dipartimento di Giustizia americano e il colosso bancario inglese HSBC. Qualche settimana fa, la HSBC ha candidamente ammesso di aver riciclato a tutto spiano i narcodollari dei cartelli messicani e colombiani. Invece di sbattere in galera i banchieri – responsabili di un reato infinitamente più grave del fumarsi un cannone nel parcheggio di un centro commerciale – il Ministro della Giustizia Breuer ha sostanzialmente graziato la HSBC: sanzione pecuniaria da 1.9 miliardi di dollari (che la banca solitamente fa nel giro di 5 settimane), buffetto sulla guancia e nessun procedimento penale. La motivazione, come spiegail New York Times, sfonda le soglie dell’incredibile: «Le autorità federali e statali hanno scelto di non incriminare la HSBC [...] nel timore che un processo potesse far crollare l’istituto bancario e, di conseguenza, danneggiare il sistema finanziario».
Di fronte a tutta questa follia, i vittoriosi referendum a Washington e in Colorado sono uno spiraglio di buon senso e sanità mentale, e potrebbero davvero rappresentare una prima via d’uscita da questo fallimento pluridecennale. Certo: una via d’uscita difficile, complessa e piena di rischi. In fondo, come ha osservato Don Winslow, «la legalizzazione e la depenalizzazione possono sembrare disgustose e spaventose, ma sono alternative molto migliori di ciò che stiamo facendo ora».
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