Meno e meglio: è l’unica
soluzione, per uscire dalla spirale del debito. Che non è un incidente di percorso, tutt’altro:
il debito è stato incoraggiato a tavolino per indurre i consumatori a comprare
merci che non si sarebbero potuti permettere. Obiettivo: smaltire la
marea di nuove merci prodotte a ritmo vorticoso da tecnologie industriali
sempre più avanzate e diffuse in tutto il mondo grazie alla globalizzazione. Il
debito serviva a questo: ad assorbire l’enorme valanga planetaria di merci,
evitando una “crisi di sovrapproduzione”. Il peccato originale ha un nome sulla bocca di
tutti: crescita. Non è la soluzione, è il problema: la crescita è
cieca, perché si basa solo sulla quantità, trascurando di selezionare beni e
servizi realmente utili. La crescita vive di sprechi e genera Pil
inutile, gonfiato dalla droga pericolosa del debito.
Ne è convinto Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: «Il debito pubblico non è
un problema di cui è stata sottovalutata la gravità», sostiene in un
intervento presto disponibile sul blog di
Mdf, il Movimento per la Decrescita Felice. Il debito,
spiega Pallante, è addirittura «il
pilastro su cui si fonda la crescita nell’attuale fase storica», perché il
ricorso al credito «è indispensabile per
continuare a far crescere la produzione di merci». Si tratta di una scelta
«consapevolmente perseguita con una totale unità d’intenti dai governi di
destra e di sinistra in tutti i paesi industrializzati: non a caso – continua
Pallante – la crescita dei debiti
pubblici ha avuto una forte accelerazione in seguito alle misure di politica
economica adottate dai governi dopo la crisi del 2008 per rilanciare la domanda attraverso le opere pubbliche
e il sostegno ai consumi privati».
Diversamente,
osserva Pallante, non si capirebbe come mai negli ultimi anni tutti i paesi
industrializzati hanno accumulato debiti pubblici sempre più consistenti, fino
a raggiungere i valori record del 2010:
dall’80%
del Pil nel caso del Regno Unito,
fino al 225% del Giappone.
Se negli Usa il debito
pubblico sfiora il tetto del prodotto interno lordo,
Francia
e Germania superano di poco l’80% mentre il debito dell’
Italia
rappresenta il 119% del Pil:
peggio
di noi c’è solo la Grecia, col suo drammatico 142%.
A fine
anno, il debito italiano raggiungerà i 2.000 miliardi di euro, a fronte di un
Pil 2010 fermo a 1.500 miliardi.
Il nostro debito pubblico è pari
alla somma di quelli di Grecia, Spagna, Portogallo e Islanda.
Per capirci: il deficit greco,
su cui si è scatenata la speculazione finanziaria, è di soli 340 miliardi di
euro. Ben diversi i volumi di casa nostra: «Per pagare gli interessi sul debito, ogni anno
l’Italia emette nuovi titoli per un valore di 75 miliardi di euro, pari al 10%
della spesa pubblica e al 5% per cento del Pil». Per contro,
aggiunge Pallante, il quadro completo lo
si ottiene solo sommando il debito pubblico a quello privato, delle famiglie
e delle aziende. Sulla base di questo mix realistico, col 218%
del rapporto debito-Pil, l’Italia non sfigura rispetto al 286% dell’Irlanda, al
250 del Portogallo, al 230 di Spagna e Olanda e persino al potente Regno Unito,
il cui debito aggregato raggiunge il 245% del Pil. A fronte di queste
cifre, conclude Pallante, non si può
escludere la possibilità che gli Stati più indebitati decidano di troncare la
spirale degli interessi passivi decidendo di fallire, trascinando al fallimento
le banche che hanno sottoscritto i loro titoli
e alla rovina i risparmiatori che hanno depositato il loro denaro nelle banche.
Ma
perché gli Stati e le amministrazioni locali spendono sistematicamente cifre
superiori ai loro introiti? Perché il sistema bancario induce le famiglie a spendere
cifre superiori ai loro redditi, magari con consigli interessati e specifiche
linee di credito al consumo? «La risposta è intuitiva: perché la
crescita della produzione di merci ha raggiunto un livello tale che se non si
spendesse più di quello che sarebbe consentito dai redditi effettivi,
crescerebbero le quantità di merci invendute e si scatenerebbe una crisi di sovrapproduzione in grado di distruggere il sistema economico
e produttivo fondato sulla crescita della produzione di merci». Secondo gli
economisti, per ridurre il debito pubblico occorre stimolare la crescita del
Pil, perché se cresce la produzione di merci aumenta anche il gettito fiscale. Per favorire la crescita, lo Stato ha due
strade: ridurre le tasse, per incoraggiare i consumi, o incrementare la spesa
pubblica. «Ma in entrambi i casi, il debito pubblico aumenta: per ridurlo,
attraverso la crescita, bisogna aumentarlo!».
In
realtà l’Europa punta su un’altra strada, quella che avrà un impatto
durissimo sulla società: il taglio della spesa pubblica, fino alla prospettiva
dell’inserimento nelle Costituzioni dell’obbligo del pareggio di bilancio.
Problema: tartassando i consumatori, il
Pil non potrà certo crescere. Secondo Pallante, neppure il Fondo Monetario
Internazionale ha più soluzioni: basti pensare che la direttrice, Cristine
Lagarde, ha appena proposto di schiacciare contemporaneamente il pedale del
freno e quello dell’acceleratore: ridurre la spesa pubblica e/o aumentare le
tasse, e al tempo stesso favorire l’aumento della domanda mediante l’aumento
della spesa pubblica e/o la diminuzione delle tasse. «Il fatto è che la crisi in corso non è congiunturale, ma di sistema, e gli strumenti
tradizionali di politica economica non funzionano più».
In virtù della recente globalizzazione dei mercati e della concorrenza
internazionale, lo sviluppo tecnologico ha determinato un eccesso di capacità
produttiva che cresce di anno in anno: «Macchinari
sempre più potenti producono in tempi sempre più brevi quantità sempre maggiori
di merci, con un’incidenza sempre minore di lavoro umano per unità di prodotto». Si tratta di
tecnologie che richiedono costi d’investimento molto alti, alla portata solo di
grandi società in grado di operare sul mercato mondiale: multinazionali che non
possono rimanere ferme perché subirebbero forti danni economici in termini di
ammortamento dei capitali e di mancati guadagni: per cui «devono lavorare
a pieno regime, e tutto ciò che producono deve essere acquistato anche se non
ce n’è bisogno».
Se l’offerta in crescita
esplosiva supera di gran lunga la domanda, la prima conseguenza è la
disoccupazione, che a sua volta
riduce ulteriormente la domanda. Oltre a gonfiare i debiti pubblici,
continua Pallante, proprio la crescita ha seminato il panico sul fronte
occupazionale: in Spagna, dove dal 2007
al 2010 la percentuale dei disoccupati è cresciuta dall’8,3 al 20% e quasi un
giovane su due è senza lavoro, secondo calcoli prudenziali ci sono
765.000 immobili invenduti. E nella piccola Irlanda, dove negli stessi anni la
disoccupazione è galoppata dal 4,6 al 13,7%, gli immobili invenduti sono
300.000. Se le nuove tecnologie tagliano i posti di lavoro e i redditi non bastano ad acquistare le merci, ecco che «l’unico
modo per incrementare la domanda è l’indebitamento».
La
scienza del debito, dunque, per tenere in piedi ancora per un po’ una economia totalmente
drogata, dal destino ormai segnato.
Da una parte gli incentivi alle famiglie verso carte di
credito, rate e mutui, e dell’altra il via libera al deficit pubblico
truffaldino: in cima alla lista le cosiddette grandi opere, faraoniche e
devastanti, per lo più inutili o comunque bocciate da qualsiasi rapporto
costi-benefici, ma comodissime per spartire denari all’interno della casta di
potere che accomuna politici, imprenditori e banchieri.(1*)
Prima grandi cantieri, e poi grandi cattedrali nel deserto finanziate a
spese dei cittadini e poi magari cedute a società “amiche”. Nasce anche da lì
la privatizzazione selvaggia delle
aziende pubbliche preposte alla gestione dei servizi sociali come acqua, energia e trasporti: si svendono i
“gioielli di famiglia” proprio per ridurre l’entità colossale dei debiti
contratti per realizzare le grandi opere.
Altra
voce decisiva nel debito iniquo: la spesa militare.
Già
abnorme, si è gonfiata a dismisura dopo il crollo del Muro di
Berlino con la nuova strategia “imperiale” statunitense che ha sparso eserciti
e seminato guerre in tutto il mondo. Strategia ulteriormente accelerata
dalla propaganda securitaria dopo l’attentato dell’11 Settembre. Un pretesto,
per mettere le mani sulle regioni-chiave del pianeta, come quelle petrolifere. Peccato che l’aumento esponenziale delle
spese per gli armamenti abbia progressivamente ridotto i vantaggi economici
iniziali apportati dal controllo dei flussi di petrolio. Secondo Pallante,
si comincia a delineare «una situazione
che presenta inquietanti analogie con quella che portò alla caduta dell’Impero
Romano, quando le spese militari per tenere sotto controllo le province
cominciarono ad essere superiori al valore delle risorse che se ne ricavavano».
Come bloccare la spirale dei debiti pubblici? «Bisogna prendere immediatamente tre decisioni:
sospendere tutte le grandi opere pubbliche deliberate in deficit, ridurre
drasticamente le spese militari, ridurre drasticamente i costi della politica».
In realtà sono tre aspetti dello stesso problema, insiste Pallante: «Non bisogna essere particolarmente
intuitivi per capire che il sistema di potere fondato sull’alleanza strategica
tra partiti politici otto-novecenteschi e grandi imprese non prenderà queste
decisioni perché ne verrebbe travolto e nessun potere si fa da parte se non è
costretto da una forza maggiore alla sua». Problema: ancora non esiste un
blocco di potere alternativo in grado di scalzare l’alleanza che ha prodotto la
catastrofe della crescita, «quindi, non
c’è possibilità di superare la crisi in corso, che è destinata ad aggravarsi progressivamente e a
concludersi con un crollo rovinoso». Nota: Lo sappiamo tutti oramai questo, i
media con le loro notizie martellanti ci stanno solo abituando al crollo.
Sempre secondo Pallante, tutto
lascia credere che questo esito sia ormai inevitabile: ormai sembra solo una questione di tempo. «Se
la prima a precipitare sarà la crisi climatica,
sarà difficile trovare una via di scampo. Se invece la crisi climatica verrà ritardata
dalla crisi economica o dalla crisi energetica, coloro
che non si sono lasciati abbindolare dalla gigantesca opera di disinformazione
e propaganda svolta dai mass media, e sono più di quanti si creda, possono
evitare di rimanere sepolti dalle macerie». La via d’uscita?
«Occorre sganciarsi dal sistema economico e produttivo fondato sulla crescita
della produzione di merci, organizzando reti di economia,
di produzione e di socialità alternative, in grado di funzionare autonomamente
e di rispondere ai bisogni fondamentali della vita con le risorse dei territori
in cui insistono». La chiave? Lavoro utile.
«La decrescita abbatte il Pil ma produce occupazione
qualificata, per produrre beni e servizi selezionati, realmente necessari».
Ristrutturazione
energetica dell’edilizia, energie rinnovabili, riduzione dei rifiuti, filiere
corte alimentari e industriali, in un’ottica territoriale, distrettuale. Meno
trasporti, meno costi, meno sprechi. Diminuirà il Pil? Ne saremo felici. E
lavoreremo tutti.
di Giorgio Cattaneo
2 commenti:
In ogni caso nessuna crescita è possibile se si mettono da parte i giovani e si tengono i vecchi al lavoro. E' contro natura.
Ma si...Io Aspetto dal 2003, da allora non faccio niente!!! Leggo e scrivo, a volte parlo se trovo qualcuno che ne valga la pena. Io osservo e attendo voglio vedere il botto....ahahaha, sono nullatenente e nullafacente e ME NE VANTO!
On the road "Jack Kerouac". Si fottano tutti, se ognuno si comportasse come mi comporto Io vorrei vedere!!!!
Ciao bello e stammi bene schiavo
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