Il problema
sociale a cui siamo di fronte oggi sarà un esempio da ricordare nei tempi per gli effetti devastanti che ha avuto
nei paesi occidentali, luoghi che hanno visto nel giro di una generazione una
fuga di cervelli, di capitali e di lavoro a cui nessuno aveva mai assistito. Una parte della
popolazione, la parte che sostiene la piramide è stanca, e non per invidia nei
confronti della ricchezza, ma peggio ancora perché è cosciente che tutti gli
sforzi sono indirizzati non allo sviluppo della civiltà per come lo conosciamo
ma piuttosto all’arricchimento esagerato di una piccola frazione di cittadini e
così facendo non si partecipa più ai vantaggi
dell’azione collettiva, motivo questo che ha tenuto in piedi il nostro sistema
molto tempo, oggi è venuto a mancare ... vi lascio ora a questo articolo che fornisce una buona chiave di lettura e un consiglio alle famiglie. Le grandi famiglie che dominano il mondo qui la lista, evidentemente meno intelligenti dei loro antenati, o con un'obiettivo ben preciso a loro svantaggio?
Il più grande
problema dell’economia mondiale (praticamente quella occidentale!) è che tanta
ricchezza è concentrata nelle mani di poche persone, per questo, almeno
negli Stati Uniti, si è scatenata una protesta verso l’un per cento di
paperoni. Tant'è che i movimenti di protesta contro la grande finanza
internazionale hanno creato, almeno negli Stati Uniti, uno slogan molto
significativo e fortunato: “Noi siamo il
99 per cento”, a indicare che una minoranza molto ristretta di persone
avrebbe un potere decisionale sproporzionato e un’uguale sproporzione nei
redditi e nei guadagni.
Il settimanale economico britannico Economist ha messo
insieme molte ricerche e sondaggi per capire da chi sia realmente composto
questo uno per cento dei più ricchi, chiedendosi: da dove vengono i loro soldi, che lavoro fanno, per chi votano.
Se si definisce l’uno per cento in base al reddito, il
reddito medio familiare di questa categoria di persone era di 1,2 milioni di
dollari (928.000 euro) nel 2008 basandosi sulle dichiarazioni fiscali. Un numero ristretto dei super-ricchi alzava
però la media, per cui erano sufficienti 380.000 dollari l’anno per entrare
a far parte dell’uno per cento. Se invece si considera il patrimonio
complessivo, e non solo le entrate annuali, nel 2009 rientravano nell’uno per
cento tutti i patrimoni superiori a 6,9 milioni di dollari (5,3 milioni di
euro), secondo la Federal Reserve. Rispetto al 2007, il limite si era abbassato
di più di 1,7 milioni di dollari. Per
quanto riguarda la composizione del reddito, solo una metà delle entrate
dell’uno per cento proviene dagli stipendi, mentre un quarto dai guadagni dalle
attività e il restante quarto da rendite, dividendi e interessi.
Fino a qualche anno fa le professioni più remunerate erano quelle relative al settore medico e
a quello legale anche se stava aumentando l’importanza delle professioni
finanziarie. Oggi i grandi manager delle società private sono sempre una
parte importante delle professioni rappresentate nell’uno per cento più ricco,
ma hanno smesso di essere la più importante come in passato, sostituiti da chi
lavora in banche di investimento, gestisce hedge fund o lavora come legale per
le grandi società. Nel 2009, i 25 hedge fund più ricchi hanno raccolto più di
25 miliardi di dollari, circa sei volte il guadagno di tutti i manager delle
500 principali società quotate alla borsa di New York messi insieme
(dall’inizio della crisi finanziaria, gli hedge fund hanno registrato perdite
pesanti: una media del -9 per cento nel 2011). [The Economist]
Un gruppo stabile
e chiuso
Da un anno all’altro, negli Stati Uniti, i membri dell’uno per cento tendono ad
avere poco ricambio: circa tre quarti restano gli stessi tra un anno e
l’altro. Il ricambio avviene più nel lungo periodo, anche se lento e senza
scossoni: nell’arco di dieci anni, chi
faceva parte dell’uno per cento è ancora parte del 10 per cento più ricco. Questa continuità è favorita da famiglie stabili e da alti
livelli di istruzione. Il gruppo tende a essere omogeneo anche
perché i ricchi tendono a sposarsi tra loro: tra le coppie sposate che fanno
parte dell’uno per cento, la percentuale di mariti o mogli che lavora nel settore
legale o finanziario è in costante aumento e oggi è dell’8,8 per cento circa.
Per quanto riguarda la politica, tutti o quasi i più ricchi
si interessano di politica. Secondo una ricerca della Northwestern
University, la percentuale di chi vota è altissima, il 68 per cento fa
donazioni per le campagne elettorali, quasi la metà è entrato in contatto con
un membro del parlamento statunitense e un quinto ha aiutato attivamente a
raccogliere fondi per un candidato. D’altra parte, per la prima volta nella
storia degli Stati Uniti il candidato favorito alle primarie repubblicane, Mitt
Romney, proviene dal mondo dell’alta finanza, dato che la sua fortuna personale
(circa 200 milioni di dollari) viene per gran parte dal suo lavoro di manager
per una delle più grandi società di private equity degli Stati Uniti.
Parafrasi da un commento di Joseph Stiglitz
Cominciamo
definendo la premessa di base: le disuguaglianze tra ricchi e poveri si stanno
ampliando da decenni. Siamo tutti consapevoli del fatto. Non ripercorrerò
qui tutte le prove, se non per dire che il divario tra l’un per cento e il
novantanove per cento è vasto se considerato in termini di reddito annuo e
ancora più vasto se considerato il termini di ricchezza, cioè in termini di
capitale accumulato e di altre attività.
Si consideri la famiglia Walton: i sei eredi dell’impero Walmart
possiedono una ricchezza complessiva di circa 90 miliardi di dollari, che
equivale alla ricchezza del 30% più in basso nella società statunitense.
(Molti, giù in fondo, hanno un patrimonio netto pari a zero, o negativo,
specialmente dopo il crollo del settore immobiliare). Warren Buffett è stato
corretto nel descrivere la cosa quando ha affermato: “E’ in corso una guerra di classe da vent’anni e la mia classe ha
vinto.”
Dunque no: c’è poco da discutere sul fatto fondamentale
dell’allargamento della disuguaglianza. Il dibattito è sul suo significato. A
volte si ascolta la tesi che la disuguaglianza è fondamentalmente una cosa
buona: quando i ricchi si avvantaggiano maggiormente, lo stesso vale per tutti
gli altri. Questa tesi è falsa: mentre i
ricchi si sono fatti più ricchi, la maggior parte delle persone (e non soltanto
quelli al fondo della scala sociale) si è impoverita e non è stata in grado di
conservare il proprio tenore di vita. Un tipico
lavoratore maschio a tempo pieno riceve oggi lo stesso reddito che riceveva
trent'anni fa.
Per altri, la crescita della disuguaglianza, spesso
sollecita semplicemente a un appello alla giustizia: perché così pochi devono
avere così tanto quando così tanti hanno così poco? Non è difficile capire
perché, in un’età dominata dal mercato in cui la giustizia stessa è una merce
da comprare e vendere, alcuni scarterebbero l’argomento come pio sentimentalismo.
Ma mettiamo i sentimenti da parte.
Ci sono buoni
motivi perché i paperoni dovrebbero preoccuparsi comunque della disuguaglianza,
anche pensando soltanto a sé stessi. I ricchi non esistono in un vuoto. Hanno
bisogno di una società funzionante intorno a loro per conservare la propria
posizione. Società
vastamente disuguali non funzionano in modo efficiente e le loro economie non
sono né stabili né sostenibili. Le prove dalla storia e da tutto il
mondo moderno sono inequivoche: si
arriva a un punto in cui la disuguaglianza entra in una spirale di
malfunzionamento economico per l’intera società, e quando ciò accade anche i
ricchi pagano un prezzo considerevole. Permettetemi di esporre alcuni dei
motivi.
Il problema dei
consumi
Quando un gruppo d’interesse detiene molto potere, esso
riesce a ottenere politiche che lo avvantaggiano nel breve periodo invece di
sviluppare politiche vantaggiose per la società nel suo complesso nel lungo
periodo. Questo è ciò che è accaduto in Occidente a causa della politica fiscale,
la politica regolamentare e gli investimenti pubblici. La conseguenza della
canalizzazione degli incrementi di reddito e di ricchezza in un’unica direzione
è facile da immaginare quando si tratta della spesa delle famiglie comuni, che sono uno dei motori dell’economia
basata sui consumi.
Non è un caso che i periodi in cui i segmenti intermedi
più vasti della popolazione hanno registrato redditi netti più elevati – quando
la disuguaglianza è stata ridotta, in parte come risultato di una tassazione
progressiva – sono stati i periodi in cui l’economia è cresciuta più
velocemente. Analogamente non è un caso
che la recessione attuale, come la Grande Depressione del 1929, sia stata
preceduto da grandi aumenti della disuguaglianza. Quando troppo denaro è
concentrato al vertice della società, la spesa del consumatore medio è
necessariamente ridotta, (ed è la spesa del consumatore medio che tiene in piedi
il sistema, non dimentichiamo questo: Sono poveri, ma sono tanti, sia da
tassare che da usare come consumatori), o quanto meno lo sarà in
assenza di qualche stimolo artificiale. Il trasferimento del denaro dal basso
verso l’alto riduce i consumi perché i
percettori dei redditi più elevati consumano, in percentuale del proprio
reddito, molto meno delle persone a basso reddito.
Ma nella nostra percezione non sembra sempre essere così,
perché le spese dei ricchi sembrano essere molto alte. Basta
guardare semplicemente alla vita dissoluta di alcuni calciatori o alle feste di
alcuni ricchi imprenditori. Ma il fenomeno
si comprende quando si usa un po’ di matematica. Si consideri una persona
come Mitt Romney, candidato alla Casa Bianca, il cui reddito è stato di 21,7
milioni di dollari nel 2010. Anche se Romney scegliesse di vivere una vita più
lussuosa, spenderebbe solo una frazione di tale somma, in un anno, per
sostenere sé stesso e la moglie nelle loro molte case. Ma si prenda la stessa
quantità di denaro e la si divida tra 500 persone – diciamo sotto forma di
posti lavoro con un salario di 43.400 dollari ciascuno – e si scoprirà che
quasi tutto quel denaro finisce speso. Il rapporto è semplice e a prova di bomba: quando una quantità maggiore di denaro si
concentra al vertice, la domanda aggregata entra in declino.
Se non accade qualcos’altro, sotto forma di qualche
intervento, la domanda totale dell’economia
sarà inferiore a quanto l’economia è in grado di fornire e ciò significa che ci
sarà una crescente disoccupazione, il che ridurrà ulteriormente la domanda e
che creerà il paradosso che è sotto gli occhi di tutti: negozi pieni di merce e mancanza di denaro per scambiarsi queste
merci. Oggi, l’unico rimedio, in mezzo a questa profonda crisi
monetaria, è la spesa governativa, che però non fa altro cha aumentare il
Debito Pubblico dei governi sovrano nei confronti delle banche centrali!
Il problema della
“ricerca della rendita”
Il termine “rendita” in origine era, e lo è tuttora, per
indicare i ricevi ottenuti dal possedimento di un appezzamento di terreno; sono
entrate ottenute in virtù della proprietà e non dell'utilizzo o della
produzione concreta. Il termine
“rendita” è stato alla fine esteso a comprendere i profitti monopolistici: il reddito che si riceve semplicemente dal controllo di
un monopolio. Nel tempo il
significato è stato ulteriormente ampliato a includere le entrate da ogni
genere di rivendicazione di proprietà. Se il governo concedeva a un’impresa il
diritto esclusivo di importare una certa quantità di una certa merce, ad
esempio lo zucchero, allora gli incassi extra erano chiamati una “rendita da quota”.
L’acquisizione di diritti minerari o di trivellazione
produce una forma di rendita. Lo stesso dicasi di un trattamento fiscale
preferenziale per interessi particolari. In senso ampio la “ricerca della
rendita” definisce molti dei modi attraverso i quali in nostro attuale processo
politico aiuta i ricchi a spese di tutti gli altri, includendovi trasferimenti
e sovvenzioni governative, leggi che rendono il mercato meno concorrenziale,
leggi che consentono ai direttori generali di appropriarsi di una quota
sproporzionata delle entrate delle imprese e leggi che consentono alle imprese
di realizzare profitti degradando l’ambiente.
La dimensione della “ricerca della rendita” nella nostra
economia, anche se difficile da quantificare, è chiaramente enorme. I singoli e
le imprese, che eccellono nel perseguire le rendite, sono ricompensati
profumatamente. L’industria
finanziaria che oggi opera in larga misura come mercato speculativo anziché
come uno strumento per promuovere la produttività economica
reale, è il settore per eccellenza che persegue la rendita. La ricerca
della rendita va oltre la speculazione. Il settore finanziario consegue rendite
anche dal suo dominio dei mezzi di pagamento: le esorbitanti spese sulle carte di debito e credito e anche le commissioni
meno note addebitate ai commercianti e alla fine trasferite sui
consumatori.
Il denaro che viene travasato dagli statunitensi poveri e
della classe media mediante prassi di finanziamento predatorie può essere
considerato una rendita. In
anni recenti il settore finanziario ha contato per circa il 40% di tutti i
profitti delle imprese. Ciò non significa che il suo contributo sociale se
insinui nella colonna dell’attivo, o addirittura ci si approssimi. La crisi ha
dimostrato come ha potuto seminare devastazioni nell’economia. In un’economia che persegue la rendita,
com’è diventata la nostra, le entrate private e quelle sociali sono malamente
squilibrate. Nella loro forma più semplice, le rendite non sono altro
che redistribuzioni da un segmento basso della società ai redditieri in alto
alla società. Gran parte della
disuguaglianza nella nostra economia è conseguenza del perseguimento della
rendita perché, in misura significativa, la ricerca della rendita
ridistribuisce il denaro da quelli che stanno in basso a quelli che stanno al
vertice.
Ma c’è una conseguenza economica più vasta: la lotta per acquisire rendite è, nel
migliore dei casi, un’attività a somma zero. Il
perseguimento della rendita non fa crescere nulla. Gli sforzi sono diretti a ottenere una
fetta più grande della torta piuttosto che ad accrescere la dimensione della
torta. Ma è ancora peggio: la ricerca della
rendita distorce l’allocazione delle risorse e rende più debole l’economia.
E’ una forza centripeta: i premi della ricerca della rendita diventano così
smisurati che sempre più energia è diretta a tale attività, a spese di tutto il
resto.
Paesi ricchi di risorse naturali sono famigerati per le
loro attività di perseguimento della rendita. E’ molto più facile diventare
ricchi in tali luoghi ottenendo l’accesso a risorse a condizioni favorevoli che
producendo beni o servizi che avvantaggino la gente e aumentino la
produttività. E’ per questo che tali
economie hanno avuto risultati così brutti, nonostante la loro apparente
ricchezza. E’ facile buttarla sul ridicolo e dire: “Noi non siamo la Nigeria, noi non siamo il
Congo.” Ma la dinamica del perseguimento della rendita è la stessa.
Il problema
dell’equità
Le persone non
sono macchine. Per lavorare duro devono essere
motivate. Se sentono di essere trattate scorrettamente, può essere
difficile motivarle. Questo è uno dei principi centrali della moderna
economia del lavoro, incapsulata nella cosiddetta teoria efficienza-salario che
descrive il rapporto tra il modo in cui le aziende trattano i loro lavoratori –
comprese le remunerazioni – e la produttività. Si tratta, in effetti, di
una teoria elaborata quasi un secolo fa dal grande economista Alfred Marshall,
che osservò che “il
lavoro pagato bene è generalmente efficiente, e dunque non è lavoro costoso.” In
verità è sbagliato considerare quest’affermazione solo come una teoria: è stata avvalorata da innumerevoli
esperimenti economici e psicologici.
Anche se ci sarà sempre disaccordo tra le persone sul
preciso significato di cosa sia “equo”, c’è la crescente sensazione che
l’attuale disparità di reddito, e il modo in cui, in generale, è distribuita la
ricchezza, sia profondamente iniqua. Non c’è invidia per la ricchezza
accumulata da quelli che hanno trasformato la nostra economia: gli inventori
del computer, i pionieri della biotecnologia. Ma, per la maggior parte, non
sono queste le persone al vertice della nostra piramide economica. In larga misura, si tratta di persone che
hanno raggiunto i vertici perseguendo la rendita in una forma o nell’altra. E,
alla maggior parte della gente, ciò sembra iniquo.
In una società nella quale la disuguaglianza si sta
aggravando, l’equità non riguarda soltanto i salari e il reddito, o la
ricchezza. E’
una percezione molto più generalizzata. Bisogna chiedersi se le persone si
sentano coinvolte nel progetto che la società sta seguendo. Se partecipano
ai vantaggi dell’azione collettiva, o no? Se la risposta è un sonoro “no”, allora ci si prepari a un declino di
motivazione le cui ripercussioni saranno avvertire nell’economia e in tutti gli
aspetti della vita civile.
La soluzione del
“Siate egoisti”
Molte persone, se non la maggior parte di loro, hanno una
comprensione limitata della natura della disuguaglianza nella nostra società. Sanno che qualcosa è andato storto, ma
sottovalutano il danno che la disuguaglianza produce, mentre sopravvalutano il
costo del prendere iniziative. Queste
convinzioni sbagliate, che sono state rafforzate dalla propaganda ideologica
dei potenti, stanno avendo un effetto catastrofico sulla politica e sulla
politica economica.
La domanda allora è: perchè questo un per cento, con la
sua buona istruzione, le sue schiere di consulenti e il suo tanto vantato acume
affaristico, non si rende conto di quello che sta accadendo? L’un per cento delle generazioni passate
spesso la sapeva più lunga. Sapeva che non ci sarebbe stato un vertice della
piramide se non ci fosse stata una base solida, che la sua posizione era
precaria se la società stessa era malsicura.
Henry Ford, capì che la cosa migliore che poteva fare per
sé e per la sua impresa era pagare ai dipendenti un salario onesto, perché
voleva che lavorassero duro e voleva che fossero in grado di acquistare le sue
auto. Franklin D. Roosevelt, un patrizio purosangue, capì che l’unico modo per
salvare gli Stati Uniti essenzialmente capitalisti consisteva non solo nel
diffondere la ricchezza, attraverso la tassazione e programmi sociali, ma nel
porre limiti al capitalismo stesso, mediante regolamenti.
Roosevelt e l’economista John Maynard Keynes, anche
se vituperati dai capitalisti, riuscirono a salvare il capitalismo dai
capitalisti. Richard Nixon, noto ai tempi suoi come un cinico manipolatore,
concluse che la pace sociale e la stabilità economica potevano essere
assicurati meglio tramite investimenti ed egli investì per davvero, nel
programma Medicare, in quello Head Start e nella Previdenza Sociale e in sforzi
per ripulire l’ambiente. Nixon fece anche circolare l’idea di un reddito annuo
garantito.
Dunque il
consiglio che io darei oggi all’1% è: indurite i vostri cuori. Quando siete
invitati a prendere in considerazione proposte per ridurre la disuguaglianza –
aumentando le tasse e investendo nell’istruzione, nei lavori pubblici,
nell’assistenza sanitaria e nella scienza – mettete da parte qualsiasi latente
idea di altruismo e riducete l’idea a un atteggiamento di genuino egoismo. Non
abbracciatela perché aiuta gli altri, ma fatelo soltanto per voi stessi!
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