Il 90% degli italiani consuma pane tutti i giorni e in alcune città si possono spendere 270 euro l’anno a persona. A Bologna si tocca il record con oltre 6 €/kg (11.629 lire) mentre a Napoli si scende a 1,70 €/kg (3.295 lire). fonte
I PREZZI NON SONO VARIATI ...
Da quando l’umanità ha accettato di vivere da agricoltore (con le divisioni sociali che questo comporta, così come sottolineato da J. Diamond nel suo splendido saggio “Il peggiore errore nella storia dell’umanità” [1] [2]) i cereali sono stati al centro dell’alimentazione. Siamo diventati mangiatori di granaglie, con del companatico (cum panem) a fare da contorno.
La frase “guadagnarsi la pagnotta” stigmatizza la centralità del pane nella vita dei lavoratori.
Non solo: Mario Rigoni Stern ci ricorda che il termine Compagno deriva da Cum Panis e afferma “noi della Resistenza siamo Compagni perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche, insieme, vissuto il pane della libertà che è il più difficile da conquistare e mantenere.”[3]
Il pane è centrale non solo per i comunisti ma anche per i credenti. Gesù dice: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno”.
Se il pane è centrale nelle prassi comuniste e religiose, non lo è da meno nelle prassi capitaliste. Con dinamiche tipicamente capitaliste. La Terra dell’Abbondanza che il Capitale ci ha consegnato ha precise regole: la quantità di merci disponibili deve essere di gran lunga superiore alla loro richiesta (con buona pace della teoria della domanda e offerta) ed è vietato limitare la “libertà” individuale con negozi sguarniti, vetrine scialbe e code di approvvigionamento. Da noi nulla deve assomigliare ai negozi del Socialismo Reale, e ad ogni cittadino deve essere garantita la “libertà” di potere scegliere tra innumerevoli scaffali pieni a qualsiasi ora del giorno. Non abbiamo avuto la libertà di eleggere il capo del Governo (che ci è stato imposto dai vertici politici), ma abbiamo la “libertà” di trovare alle 7 di sera gli scaffali del pane ancora pieni.
«La grande distribuzione chiede ai panificatori artigianali di consegnare pane fresco in abbondanza per avere gli scaffali pieni fino all’ora di chiusura. Nei contratti è previsto il ritiro dell’invenduto da parte del panificatore. Che non può fare altro che buttare tutto», lamenta Luca Vecchiato, presidente della Federazione italiana panificatori.[4]
Il che significa solo una cosa: quasi 25.000 tonnellate di pane che finiscono nella spazzatura ogni mese. 180 quintali di pane buttato via quotidianamente nella sola Milano. Che potrebbero sfamare quel miliardo di persone che, secondo la FAO, soffrono la fame nel mondo.
«Bando ai falsi moralismi. Il nostro sistema di produzione, distribuzione e consumo rende inevitabili gli sprechi di molti altri prodotti deperibili. Pensiamo alle enormi quantità di pomodori o arance che vengono distrutte» afferma Sandro Castaldo, ordinario di Marketing all’università Bocconi di Milano. [5]
Già, ci voleva un bocconiano (come Monti) per illustrare come funziona la Terra dell’Abbondanza del Capitalismo globalista: i generi alimentari vanno dove ci sono i soldi, mica dove sono necessari. Vetrine stracolme da una parte e fame dall’altra. Insegnano bene queste cose alla Bocconi, e senza “falsi moralismi”.
E non è finita qui. Dove la mettiamo la concorrenza? E il Libero Mercato? Non pensate che il pane che viene così copiosamente messo in mostra sia tutto italiano. Oh, certo, l’etichetta dice «Prodotto sfornato e confezionato in questo punto vendita». Ma mica impastato, precotto e poi congelato. Solo sfornato. Le lavorazioni precedenti sono fatte nei paesi dell’Est: una volta congelato lo trasportano in celle frigorifere nei paesi di destinazione, dove gli danno una cottura finale nel forno (8 minuti a 210°) e lo fanno passare per prodotto locale. Ingegnoso, no? E tutto perfettamente in regola, dato che l’Europa non impone l’obbligo di indicare in etichetta la provenienza del prodotto.
Così succede che la metà dei filoni che mangiamo nelle mense e nei bar o che acquistiamo presso i supermercati vengono dai forni di Romania, Moldavia, Slovenia. A poco servono le proteste dei 24 mila fornai italiani. Nel frattempo che le proteste hanno luogo, a Campia Turzii (Romania) è in piena attività un mega impianto per la produzione del pane, frutto di una joint venture belga-romena e costato 14 milioni (5 dall´Unione europea) che sforna 1250 kg di pane all’ora.
Tale impianto supertecnologico non è l’unico a produrre pane da quelle parti. Secondo una ricerca ci sono innumerevoli forni a gestione familiare dove come combustibile si usa di tutto: da legname di dubbia provenienza (scarti di bare, residui di traslochi etc..) ai copertoni d’auto. Il tutto per contenere il costo di un chilo di pane sui 60-80 centesimi, massimo 1 euro.
Pane globalizzato low cost. Ah, la concorrenza ed il libero mercato!
Alla fine da quelle parti vengono prodotti annualmente 4 milioni di chili di pane surgelato che dura 2 anni.[6] Solo che non si sa quando è stato prodotto, da chi e dove.
Ma il problema è ancora più ampio: l’Italia importa il 50% circa del grano tenero dall’estero perché la produzione nazionale è insufficiente. Questo vuol dire che una parte considerevole del pane, dei crackers, dei grissini e delle merendine che compriamo è fatto con farine o con miscele di farine di altri Pesi. Una parte considerevole di questa materia prima arriva da Ungheria, Cecoslovacchia e Romania.[7]
Fatto questo ribadito dalla Coldiretti. Le importazioni dalla Romania di prodotti a base di cereali sono più che raddoppiate nell’ultimo anno. Ben 1,3 milioni di chili, con un più 136 per cento. Un’impennata se si pensa ai 6.733 miseri chili di dieci anni fa. “Sono gli effetti della mancanza di trasparenza sul pane in vendita – ragiona Sergio Marini, presidente Coldiretti – che impediscono al consumatore di conoscere il paese dove sono stati coltivati i cereali da è ottenuto perché non è obbligatorio indicare l’origine in etichetta. All’inizio si delocalizza la provenienza delle materie prime. Subito dopo l’impianto di trasformazione e il laboratorio artigianale”.[8]
L’aspetto più inquietante della delocalizzazione spetta però alla Chicago Stock Exchange (CHX), dove si scommettono i futures sui cereali: l’ammontare del denaro investito in futures di commodities è esploso da 5 miliardi di dollari stimati nel 2000 ai 175 miliardi di dollari del 2007. Secondo i dati CHX, i futures dei cereali (calcolati al prossimo dicembre) dovrebbero crescere del 73%, quelli legati alla soia del 52% e quelli dell’olio di soia del 44%.
Essi si possono negoziare senza spostare un chicco di grano, e si può contemporaneamente variarne la quotazione soltanto grazie alla capacità di acquistarne tanti scommettendo sui guadagni futuri e provocando, con questa sola mossa, l’aumento del loro valore. E’ per questo che l’aumento della produzione di cereali prevista dalla FAO non avrà alcun impatto sui loro valori. [9]
Fu tale speculazione a causare l’aumento del costo del pane in Egitto in quegli anni. La povertà che colpisce il 40% degli abitanti di quel paese (a fronte di entusiastiche dichiarazioni di crescita del FMI) e le speculazioni sui cereali scatenarono le rivolte del pane del 2008, ben sintetizzata da questa frase detta da una donna egiziana: “Noi siamo così poveri che non abbiamo altro che la nostra dignità e i nostri pezzetti di terra. Se vengono a prendercela, la difenderemo. Se prendete il nostro pane, noi vi spezzeremo il collo.” [10] E così successe che il prezzo del grano improvvisamente calò.
Siamo arrivati al punto che il pane di Rigoni Stern o di Gesù ha perso qualsiasi aspetto sacro per assumere quegli aspetti asettici ed impersonali tipici della postmodernità da capitalismo parassitario che non vuole riconoscere la fame. Condividere il panem con i compagni oppure l’ostia nell’eucaristia è diventato puro folklore per gli standard attuali. Molto cool invece un brunch a base di pane low cost mentre si chatta in wi-fi con il tablet: panem et circenses globalizzati.
Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno |
non si guardò neppure intorno |
ma versò il vino, spezzò il pane |
per chi diceva ho sete e ho fame.
(da Il pescatore, F. De Andrè)
[1]http://www.appelloalpopolo.it/?p=3533
[2]http://www.appelloalpopolo.it/?p=3654
[3]http://ilmalpaese.wordpress.com/2011/07/13/mario-rigoni-stern-%C2%ABperche-dovete-chiamarmi-compagno-lettera-inedita-2007/
[4]http://www.corriere.it/cronache/10_gennaio_05/querze-cibo-buttato-non-solo-pane_ff735744-fa11-11de-ad79-00144f02aabe.shtml
[5]http://www.corriere.it/cronache/10_gennaio_03/pane_buttato_9daa83c8-f842-11de-bb47-00144f02aabe.shtml
[6]http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/01/22/copertoni-nei-forni-cosi-cuoce-il-pane.html
[7]http://www.ilfattoalimentare.it/pane-romeno-berizzi-quotidiano-la-repubblica.html
[8]http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2011/10/31/news/lo_sfilatino_arriva_dalla_transilvania_invasi_dalle_pagnotte_made_in_romania-24208668/
[9]http://www.fertirrigazione.it/ita_831/
[10]http://www.medarabnews.com/2008/04/16/in-fila-per-il-pane/
Fonte
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