... due sotto prodotti della chiesa, istruiti dai gesuiti e gestiti da chi? |
Draghi, salito alla guida della Bce col sostegno decisivo della Germania, è attualmente impegnato per tentare di “salvare l’euro”. Obiettivo: trasformare di fatto la banca centrale europea in “prestatore di ultima istanza”, in grado cioè di assorbire – acquistando titoli tramite il Mes, il nuovo “meccanismo europeo di stabilità” – il debito sovrano dei paesi come Spagna e Italia, messi in pericolo dalla speculazione internazionale e ormai in balia dei “mercati”, in quanto pericolosamente indeboliti dalla catastrofica perdita della sovranità monetaria e costretti a farsi prestare a caro prezzo la moneta comune.
Se la Reuters annuncia il procedimento contro Draghi, interviene Gundi Gadesman, la portavoce del “mediatore europeo” Nikiforos Diamantoros, che deplora la “drammatizzazione” del caso. L’accusa a Draghi giunge dal Ceo, l’Osservatorio dell’Europa industriale (“Corporate Europe Observatory”), che in realtà è una campagna indipendente che monitorizza l’influenza dei “poteri forti” sulle decisioni di Strasburgo e Bruxelles. Secondo il Ceo, Draghi non sarebbe totalmente indipendente, nella sua veste di super-banchiere europeo e “signore dell’euro”, a causa della sua appartenenza al G30, il forum internazionale ultra-esclusivo che riunisce industriali e banchieri. «Abbiamo ricevuto una denuncia e abbiamo inviato una lettera alla Bce: ora stiamo aspettando una risposta», ammette il “mediatore”. L’Eurotower ha tempo fino alla fine di ottobre per rispondere. A quel punto, Diamantoros formulerà “raccomandazioni non vincolanti”. «Non abbiamo il potere di imporre sanzioni», spiega la Gadesman: «Cerchiamo di trovare una soluzione amichevole».
«Il G30 – ribatte l’Osservatorio antitrust – ha tutte le caratteristiche di un veicolo di lobbying per le grandi banche private internazionali e il presidente della Banca centrale europea non dovrebbe esserne membro». Una denuncia esplicitamente formulata, con grande anticipo, da analisti come Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sul complotto della finanza mondiale. Se Barnard definisce Draghi una sorta di “golpista”, nonché uno dei registi dell’inflessibile regime monetario dell’euro – che ha condannato l’Eurozona alla semi-schiavitù della dipendenza, senza più disporre dello strumento principe della sovranità statale, cioè l’autonomia monetaria indispensabile ad affrontare il debito evitando il dramma della crisi sociale – un primo altolà all’ex governatore di Bankitalia era giunto già nel novembre 2011 da Kenneth Haar, portavoce della campagna Ceo: «Dear Mr. Draghi, si dimetta o lasci il Gruppo dei 30».
Draghi, ricorda Checchino Antonini sul blog “Il Megafono Quotidiano”, era già stato criticato sulla sua carriera alla Goldman Sachs dal 2002 al 2005, quando la potentissima banca d’affari statunitense (in cui ha militato anche Monti, con un ruolo di primissimo piano) ha “aiutato” la Grecia a fare i suoi conti, risultati poi clamorosamente “truccati”, fino all’esplosione della crisi, col rischio-default e l’inaudito “massacro sociale” attualmente in corso ad Atene. Candidato da Angela Merkel alla guida della Bce, lo stesso Draghi – che il professore italo-danese Bruno Amoroso considera “cattivo allievo” del grande economista italiano Federico Caffè – aveva alimentato forti sospetti di lobbysmo già all’epoca dell’episodio del Britannia, il panfilo della corona inglese a bordo del quale, nel ’92, si tenne un summit strategico con un centinaio di businessman, al quale partecipò il futuro governatore di Bankitalia, allora direttore del Tesoro.
Era l’epoca oscura segnata a morte, in Italia, dallo stragismo mafioso e dalle strane trattative coi boss di Cosa Nostra, su cui sta ancora cercando di far luce la magistratura. Sullo sfondo la caduta del Muro di Berlino, il terremoto di Tangentopoli e il colossale “riposizionamento” strategico dell’Occidente, sancito dal Trattato di Maastricht in vista del fatale avvento dell’euro. Un piano sostanzialmente “golpista”, secondo l’economista francese Alain Parguez, già consulente di François Mitterrand, per imbrigliare l’Europa già all’indomani dell’improvvisa libertà conquistata con la fine della guerra fredda. Obiettivo: confiscare la democrazia attraverso la demolizione delle sovranità nazionali, per affidare il futuro del continente a pochissime mani, quelle dell’élite finanziaria mondiale, attraverso i tecnocrati di Bruxelles, diligenti esecutori di direttive prese altrove. Più la crisi dell’Eurozona peggiora, più sale di tono la polemica: Premi Nobel come Joseph Stiglitz e Paul Krugman condannano come “suicide” le politiche di rigore promosse da “commissari” come Mario Monti, dando fiato alla denuncia – fino a ieri solitaria – di un battitore libero come Paolo Barnard.
L’ex giornalista di “Report”, già collaboratore di Michele Santoro, ha svolto un intenso lavoro di indagine, raccogliendo testimonianze inquietanti sull’origine dell’euro e il disegno egemonico della finanza globale, divenuta più aggressiva che mai di fronte alla crisi dell’economia reale, quella del capitalismo industriale globalizzato. L’euro come “guinzaglio”, per garantire rendite speculative? Peggio: con trattati-capestro come il Fiscal Compact, gli Stati (già “disarmati”, privati della propria moneta liberamente stampabile) ora dovranno sottostare ai diktat della tecnocrazia europea anche in materia di bilancio: senza più neppure il potere di spesa pubblica, lo Stato si riduce praticamente a zero. Si avvera il sogno del francese François Perroux, progenitore dell’euro: «Togliere allo Stato la sua ragion d’essere». Riletta così, la storia dell’unificazione europea – di cui si cominciano a scontare le catastrofiche conseguenze – pone sotto tutt’altra luce il trionfalismo ottimistico di personaggi come Jacques Délors, Carlo Azeglio Ciampi e Jacques Attali, super-consigliere dell’Eliseo. Monarchico travestito da socialista, come riferisce lo stesso Parguez, Attali restò famoso per una battuta agghiacciante: «Ma cosa crede, la plebaglia europea, che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?».
Agli economisti democratici della Modern Money Theory, di scuola americana, ora finisce per dare ragione persino Timothy Geithner, il ministro del Tesoro di Obama: «L’Europa sta sbagliando tutto, il rigore soffoca l’economia: il problema non è il debito pubblico ma, al contrario, il troppo poco deficit dello Stato a favore di cittadini e imprese». E chi ha deciso che il debito è tabù? Bruxelles, naturalmente, dove comandano tecnocrati che nessuno ha eletto. Il loro capolavoro, sostiene Luciano Gallino, è stato proprio questo: farci credere che la colpa della crisi sia stata di noi “cicale”, mentre è stata proprio la grande finanza speculativa – quella che oggi domina l’Europa – a mettere in croce gli Stati e la loro capacità di dare sostegno all’economia. Se i favolosi profitti della maxi-speculazione sono la fortuna di pochi, aggiunge Gallino, in ogni caso le perdite vengono regolarmente socializzate: paghiamo noi, tutto e subito, grazie all’alibi del rigore con cui si tagliano salari, pensioni, scuola e sanità.
Salvare l’euro? Sarebbe una sciagura, dice Barnard: c’è solo da sperare che la moneta europea, comune ma non pubblica, si decida finalmente a collassare. Nel momento in cui Mario Draghi prova a utilizzare tutti i suoi poteri, e cioè l’erogazione pressoché illimitata di credito a favore degli Stati traballanti, ecco che finisce sotto attacco. Da una parte la Germania, che beneficia dell’euro per il suo export, e dall’altra i critici che, sulla figura del super-banchiere, vogliono vederci chiaro. L’articolo 130 del trattato costitutivo dell’Unione Europea, ricorda Kenneth Haar per conto della campagna Ceo, prescrive che “nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri né la banca centrale europea, né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, organi, uffici o agenzie, da qualsiasi governo di uno Stato membro o da qualsiasi altro organismo”.
Anche il settore finanziario privato e i suoi rappresentanti sono tra gli organi che potrebbero esercitare un’influenza indebita sulla banca. Di conseguenza, la Bce e il suo presidente hanno l’obbligo di mantenere una distanza adeguata da qualsiasi veicolo del settore finanziario. Il “Gruppo dei Trenta”, precisa Antonino Checchini sul “Megafono Quotidiano”, non è nient’altro che un potentissimo gruppo di pressione dei banchieri del settore pubblico e privato. Tra i suoi membri spiccano dirigenti e consulenti di Morgan Stanley, Jp Morgan Chase International e Bnp Paribas. Quando il gruppo si presenta al pubblico, di solito è rappresentato da Jacob Frenkel della JP Morgan, che agisce come portavoce. Il gruppo ha tutte le caratteristiche di un veicolo di lobbying per privati interessi finanziari, pronto a lavorare per far cambiare le leggi a proprio vantaggio.
«Solo un altro banchiere – scrive Checchini – può fingere di non vedere che la mission del gruppo è quella di influenzare il dibattito sulla regolamentazione del settore finanziario in tutto il mondo». Il “Group of 30”, ricorda lo stesso Kenneth Haar, è stato attivissimo in occasione di “Basilea II”, l’accordo strategico del 2004 sui requisiti minimi di capitale, in seguito accusato di molte delle calamità nel crisi finanziaria nel 2008. Haar punta l’indice sulla «natura opaca» delle attività dei suoi membri, anche se non c’è modo di conoscere nei dettagli l’eventuale ruolo di Mario Draghi, dato che i summit del super-clan sono riservatissimi e inaccessibili al pubblico. Il 27 giugno 2012 il Ceo ha presentato una denuncia formale presso il “mediatore europeo”: l’appartenenza di Draghi al Gruppo dei Trenta sarebbe in contrasto con le regole della Bce in materia di etica. Che Draghi faccia parte del club non è certo un mistero. Ma i media si guardano bene dal ricordarlo, quando parlano del presidente della Bce come possibile “salvatore dell’euro”.
Fonte: Libre 2 Agosto 2012
tratto da http://ilupidieinstein.blogspot.it
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