"THE END"

"THE END"
http://www.romafaschifo.com

martedì 20 marzo 2012

In Italia, storia del paese



Tratto dal blog http://www.tnepd.com/2012/in-italia-1-le-origini-della-repubblica-2

Pubblico a puntate un breve saggio sulla storia italiana dal 1946 a Mani Pulite che scrissi un paio di anni or sono, quando ancora prendevo qualcosa sul serio. Purtroppo non è né sfacciato né sboccato quanto i post più recenti e le allegorie sessuali sono davvero rare, pertanto ne sconsiglio la lettura.

Premessa sulle premesse

Mi sono accorto, discutendo di politica italiana con un amico, che molte premesse all’analisi che io davo per scontate non lo erano affatto per lui. Ne deduco che probabilmente esse possono non essere nitide anche per molti altri. Mi prodigherò perciò a chiarire i concetti indispensabili mano a mano che se ne presenterà l’occasione, per evitare fraintendimenti.

Non possiamo esimerci, prima di parlare della politica italiana attuale, dalla redazione di un resoconto stringato delle sue origini. Sia chiaro fin d’ora un assunto metodologico: la ricostruzione che intraprendiamo non ha alcuna velleità di completezza nè d’indubitabilità. Ben inteso, da questa parte dello schermo siamo convinti che un fondo di verità sia celato in quasi ogni sillaba del testo ma anche che gli stessi concetti possano esser tradotti ed interpretati in modi diversi.

Saremo letti da chi già si occupa di analisi politica e di storia ma anche da chi, per esempio, non si è mai posto il problema del perché in un Paese che si presume repubblicano, democratico e sovrano, le leve del potere non siano mai state concesse alle mani del popolo. Invitiamo pertanto tutte le categorie umane che ne avranno occasione, ad approciarsi a questo breve saggio con spirito critico nei confronti della realtà prima che dei suoi interpreti. Le invitiamo a rimuovere temporaneamente ogni disegno precostituito nella memoria ed a colmare quel vuoto coi frutti dell’esercizio intellettuale. Ogni spunto di questo breve saggio sarà così propizio all’elaborazione curiosa di nuovi concetti, alla loro discussione e – nel migliore dei casi – alla loro condivisione.


Le origini

La Repubblica Italiana nacque nel 1946 e lo fece su fondamenta molto fragili. Colonna portante del neonato spirito nazionale fu da subito una favola, la favola della destra e della sinistra. Diffusa in Italia – al pari di tutta l’Europa – al termine della seconda guerra mondiale, essa riscosse in men che non si dica un successostrepitoso. Ben presto tutti si convinsero che essa non fosse altro che la pura verità e trasmisero questa convinzione ai propri figli e questi ai loro, tant’è che molti ancora oggi – alla terza generazione – sono convinti che non si tratti affatto di una favola.

L’Italia uscì dal secondo conflitto mondiale (1939-1945) con le ossa rotte ma soprattutto con gli americani, le mafie e la chiesa cattolica non solo a piede libero, ma padroni del territorio. Le tre forze in campo non si equivalevano ma si completavano reciprocamente: gli Stati Uniti col loro esercito di soldati, le mafie col loro esercito di picciotti, il Vaticano col suo esercito di preti.

Alla caduta del regime fascista, piaccia o meno, la penisola si presentava come un veliero appena scampato alla tempesta. Il capitano era affogato tra i flutti, l’equipaggio stremato osservava il timone privo di governo. l’Italia visse in quel frangente un drammatico vuoto di potere che necessitava d’essere colmato in fretta. Un’occasione che si sarebbe potuta sfruttare meglio? Probabile, ma in tutta evidenza i tempi non erano ancora maturi. Fu così che lo stivale si immerse a piè pari in una contraddizione di fondo da cui non sarebbe più stato capace di uscire. La Repubblica nacque serva di tre padroni.

I tre armatori recuperarono il relitto e fecero quello che qualsiasi socio di buon senso avrebbe fatto nella stessa situazione: si misero d’accordo e si spartirono ciò che restava del battello e dell’equipaggio. Il loro obiettivo era quello di qualsiasi imprenditore: realizzare un utile maggiore dell’investimento. Il capitale materiale a disposizione era una lingua di terra nel mar Mediterraneo, il capitale umano erano i milioni di superstiti che la abitavano.

Ci piace pensare che la Trimurti si riunì in una saletta riservata di un palazzo vaticano, davanti ad uno scotch e ad un vassoio di tartine al salmone norvegese. Porporati, picciotti e generali… dovette essere una riunione decisamente movimentata. Che cosa decisero?

Grazie al cielo optarono per la repubblica democratica, una soluzione moderna che accontentava tutti. Vedremo poi perché. Gli Stati Uniti, che a sentir loro erano venuti generosamente ad esportare la democrazia, fecero del nord una zona cuscinetto a livello politico-militare ed una loro colonia economica. Le mafie si tennero il sud. Il Vaticano prese in carico il ruolo di collante di tutta la nazione e di moderatore nelle relazioni fra i soci, in altre parole, la direzione generale. A quel punto fu annunciato agli italiani che erano diventati tutti cittadini elettori di una libera repubblica.

I novelli elettori in buona parte erano analfabeti. Gli italiani uscivano dal ventennio fascista e soprattutto da cinque anni di guerra, pochi avevano esperienza di democrazia partecipativa. Non per questo erano dei fessi. Di sicuro non si poteva raccontar loro la verità altrimenti nessuno sarebbe andato a votare. Ma qual era la verità, se mai ce n’è una?

Bisogna farsene una ragione, la verità era – ed è – che da che mondo è mondo ci sono dei padroni. In origine, forse, ciascuno era padrone di sè stesso e madre natura di tutti, ma durò poco. Presto vennero i capi-villaggio, poi i signori delle cittaà e i sacerdoti. Poi vennero i re, gli imperatori, i monarchi ed i dominii si fecero Stati. Insomma, di padroni se ne erano sempre avuti, gente che usava sedere su troni tempestati di pietre preziose, che s’agghindava d’ermellino, che montava a cavallo alla testa del suo esercito, gente che sfilava in carrozza nel tripudio delle folle. Il popolo, fino alla metà del diciassettesimo secolo, trovava la cosa del tutto normale.

“Loro erano loro e tutti gli altri non erano un cazzo.” parafrasando la definizione di questa faccenda data dal magistrale marchese del Grillo. Era stato così da sempre, si badi, da sempre.

Vennero poi le rivoluzioni ‘popolari’ ed i padroni reagirono ciascuno a modo suo. Due esempi opposti: in Inghilterra avvenne una fusione quasi indolore delle esigenze di tutti. Ci volle oltre un secolo di tira e molla ma poi monarchi, grandi possidenti terrieri e popolo finirono per intendersi e trassero in seguito enormi benefici da questa chiarezza di rapporti. Aleksandr Sergeevic Puskin, sul tema, lasciò ai posteri questo motto: ’Giovanotto, se questi miei scritti dovessero cadere nelle tue mani, ricorda che i cambiamenti migliori e più solidi sono quelli che provengono dal miglioramento dei costumi senza nessuno sconvolgimento violento.’ In Francia le cose non andarono altrettanto bene, padroni e popolo non trovarono un accordo pacifico e la misero in rissa.

Tutto quanto detto per chiarire che, prima delle “rivoluzioni democratiche” intervenute nel diciottesimo secolo, i padroni ed il popolo si erano sempre accettati reciprocamente per quello che erano. Ed era stato così da sempre.

Saltiamo al 1943. L’Italia sta vivendo un momento storico simile alla Francia pre-rivoluzionaria. Dopo due decenni di convivenza, il proprietario (il Re), l’amministratore delegato (Mussolini) e la forza lavoro (il popolo) non vanno più d’accordo. L’amministratore delegato ha accentrato su di sè troppo potere e ne ha abusato. La guerra fa la sua parte nel rendere ancor più critica la congiuntura. Mentre gli operai appendono la dirigenza al ramo più alto, il proprietario (il Re) si scopre solo di fronte a vecchi e nuovi potentati. Preti, soldati e picciotti compongono un esercito che nemmeno Garibaldi… che dio lo fulmini.

La Trimurti, riprendiamo il filo del discorso, ebbe dunque carta bianca. Avrebbe potuto adottare una soluzione conservativa, mantenendo in vita una monarchia di facciata. In questo caso la proprietà sarebbe di fatto passata alla Trimurti ed il Re ne sarebbe divenuto il portavoce. Il Vaticano, interessato ad assumere quel ruolo, si oppose strenuamente all’ipotesi conservativa. Per questa ed altre ragioni prevalse infine l’opzione repubblicana coi suoi pregi ed i suoi difetti. Vediamone i principali.

Anzitutto la forma repubblicana era la nemesi pubblica di quella che in ambito privato si definisce ‘Società per Azioni’. A tal uopo prevedeva la costituzione di un’assemblea, il parlamento, rappresentativa delle ‘quote azionarie’. Nella teoria accademica e nell’immaginario collettivo la proprietà era distribuita all’azionariato diffuso (i cittadini) in quota di una azione a cranio ed il parlamento ne riassumeva gli umori. Nella pratica delle cose, come abbiamo visto, tre soci si dividevano gran parte della torta. La forma repubblicana era decisamente utile anche al fine di preservare la pace sociale. Era popolare, moderna, ‘alla moda’ tra gli intellettuali, un deterrente enorme alle rivoluzioni dal basso. Unico neo del meccanismo: i padroni dovevano lasciare il palcoscenico, bisognava evitare che la gente si accorgesse che “loro erano sempre loro e tutti gli altri, come sempre, non erano un cazzo.”

All’inesperto elettorato italiano del secondo dopoguerra fu fornita una versione alternativa alla realtà, ingenua se vista a posteriori, ma straordinariamente efficace nella pratica: la favola della destra e della sinistra.

La favola inizialmente era poco più che un canovaccio, naif ma ben congegnato. Raccontava che il mondo, dopo la guerra, si era diviso in due. Da una parte c’erano gli americani, quelli che erano venuti da lontano per liberare (a suon di bombe) l’Italia da Mussolini, dall’altra parte c’erano i comunisti. Gli americani stavano a sinistra sulla cartina ma a destra politicamente. Non una destra cattiva come quella fascista, ma comunque abbastanza a destra. Gli americani erano gente allegra e se uno voleva cercar fortuna l’America era a detta di tutti il posto giusto in cui trovarla. I comunisti mangiavano i bambini e sulla cartina stavano in alto a destra ma politicamente stavano in basso a sinistra. Sulle cartine americane invece i comunisti stavano proprio a sinistra. Gli operai più poveri votavano comunista. I comunisti erano associati al colore rosso ed erano amici dei russi. L’assonanza dei termini facilitò l’associazione d’idee. I russi erano acerrimi nemici degli Stati Uniti.

Da una parte gli azzurri, dall’altra i rossi. Bastava scegliere da che parte stare e votare da quella parte. Questa era la favola. Gli italiani se ne appassionarono.

La Trimurti era tranquilla sull’esito della scelta elettorale. I filo-americani erano numerosi in tutto lo stivale, gli indecisi – che erano la maggior parte – chiedevano consiglio al parroco, al sud la collaborazione delle mafie garantiva un controllo assoluto. Nonostante ciò, nello stupore generale, l’opzione ‘di sinistra’ piacque agli italiani ben oltre le previsioni ed il Partito Comunista Italiano divenne rapidamente il più forte tra i suoi omologhi dei Paesi sotto la sfera americana. Alcuni leaders comunisti di quell’epoca erano davvero convinti che un’economia collettivizzata fosse auspicabile. Che avessero ragione o torto, la Trimurti non l’avrebbe mai permesso. E non lo permise.



Spronato dai commenti e dalle critiche di alcuni lettori, aggiungo gli approfondimenti relativi al capitolo sotto forma di domande e risposte.

1. Nella trattazione, a mio parere, il ruolo del Partito Comunista Italiano viene sminuito. Come la mettiamo col ruolo enorme che svolse il PCI nel Comitato di Liberazione Nazionale?

Il CLN fu un governo assembleare straordinario costituito dagli antifascisti nel 1943. Non parteciparono al CLN alcuni gruppi di sinistra che non accettavano il compromesso dell’unità nazionale su cui si basava e che prevedeva la “precedenza alla lotta contro il nemico esterno a fianco dell’alleato angloamericano, spostando a dopo la vittoria il problema dell’assetto Istituzionale dello Stato”. Il primo atto politico del CLN dopo il 25 aprile 1945 fu l’abrogazione delle leggi economiche sulla socializzazione delle imprese. Ora… con tutta la buona volontà, quelle del CLN non mi paiono davvero istanze comuniste. E non dovettero sembrar tali nemmeno ad altri, visto che non aderirono al CLN formazioni politico militari antifasciste di rilevante importanza come Bandiera Rossa Roma e formazioni anarchiche di pesante valenza. La stessa adesione al CLN di Stella Rossa fu complessa e problematica.

In ultimo va sottolineato come l’esperienza dei Comitati di Liberazione Nazionale fu un’esperienza breve (1943 – 1946 meno di tre anni di cui due bellici), contestualizzata in un momento critico e congenitamente disordinato. I reali equilibri del potere vennero alla luce in seguito, a bocce ferme come si suol dire. Con questo non s’intende sminuire il sacrificio dei tanti uomini coraggiosi che parteciparono alla resistenza, ma sottolineare come di quel sacrificio si fecero beffa coloro che assunsero le redini del potere in seguito.

2. La sinistra e la destra non possono essere una favola, il Fronte Popolare aveva milioni di iscritti in Italia. Non è che gli italiani scoprirono la sinistra. La sinistra c’era già ed era molto potente. Se dietro alla DC c’erano gli americani, dietro al PCI non c’era forse Stalin?

Urge un riassunto stringato delle origini del PCI. Il Partito Comunista Italiano (PCI) fu partorito il 21 gennaio 1921 a Livorno come Partito Comunista d’Italia (sezione italiana della III Internazionale). I suoi dirigenti vissero in clandestinità o in esilio nel corso di tutto il ventennio fascista. Assunse il suo nome definitivo (si fa per dire) il 15 maggio 1943, in seguito allo scioglimento della III Internazionale e mentre ancora operava in clandestinità tra Mosca, Parigi e l’Italia per la sua netta opposizione al regime fascista vigente in patria. Caduto il regime nel 1943, il PCI ricominciò a operare legalmente partecipando immediatamente alla costituzione di formazioni partigiane. I comunisti divennero presto la parte preponderante dei gruppi clandestini della resistenza italiana, organizzati nelle Brigate Garibaldi sulle montagne e nei GAP e nelle SAP nelle città. Oltre alla lotta armata, il PCI continuò il suo lavoro politico continuando nell’organizzazione degli operai e promuovendo scioperi ed agitazioni soprattutto nei primi mesi del 1944. La dichiarazione di guerra del Governo Badoglio ai danni della Germania pose il PCI dinnanzi ad un bivio: continuare nella linea, richiesta dalla base, di contrapposizione frontale a Badoglio e alla Monarchia o l’assunzione di responsabilità di governo. Nel marzo del 1944 Togliatti, dopo aver avuto un incontro con Stalin, tornò in Italia e praticò quella che rimase famosa come la svolta di Salerno con la quale il PCI, anteponendo la lotta antifascista alla deposizione della Monarchia, sancì il proprio ingresso nel Governo. Infatti il PCI partecipò agli esecutivi antifascisti successivi al governo Badoglio I. Nel mezzo secolo successivo non gli sarebbe più capitato.

In Italia, nel 1943 la “sinistra” non c’era. Se chiedevi alla gente se era di sinistra, rispondevano di sì solo i mancini. Non esisteva proprio la “sinistra”. Esistevano i comunisti italiani, ma fino al 1943 erano un manipolo di intellettuali sparsi per le capitali europee.
L’URSS sostenne in qualche modo la resistenza partigiana comunista? Probabile. Ciò avrebbe permesso in tempi brevi una grande diffusione del movimento comunista in Italia? Altrettanto probabile. Ma anche se fosse, la “sinistra” non c’era. Nel 1943, nel 1944, nel 1945 c’era l’URSS comunista, questo sì, nemica dei fascisti e dei nazisti. In un batter di ciglia tutto fu stravolto. Nel 1946 c’era sempre l’URSS comunista, la stessa, ma improvvisamente era diventata nemica degli americani, dei preti e dei bambini. E adesso, finalmente, stava a sinistra.

3. Secondo me il problema, anche allora (parlo degli anni cinquanta e sessanta) era che il sistema politico-elettorale in Italia non permetteva alternative, pur non avendo assolutamente nulla a che vedere con il maggioritario. La favola, come la chiami, ebbe il “merito” di dare una visione nitida, anche se intimamente distorta (è questo il paradosso, uno dei tanti paradossi di cui la storia dell’uomo è gravida), delle cose ad una massa enorme di gente atavicamente abituata a delegare ad altri il compito di pensare. Però mi chiedo – e ti chiedo – che alternative c’erano in un mondo diviso fra i due blocchi?

Nella fase finale della seconda guerra mondiale il quadro italiano era decisamente complicato. Sul territorio ci ritrovammo contemporaneamente le forze alleate angloamericane che risalivano lo stivale, i fascisti arroccati in settentrione che non mollavano ed altri che si erano redenti, i tedeschi che adesso ci sparavano addosso, la chiesa cattolica che predicava, assolveva e seppelliva, le mafie che tramacciavano nell’ombra, i comunisti che tornavano dall’esilio con tutta l’intenzione di fomentare i movimenti operai. Sappiamo chi prevalse, quella che abbiamo chiamato Trimurti. Perchè? Perchè erano i tre soggetti più forti del momento? In parte è così, ma non solo.

Abbiamo visto che il Partito Comunista Italiano, dal 1944 in poi, aveva preso rapidamente piede tra le masse più povere ma al suo interno le discussioni erano cominciate ben prima. Sebbene esiliati o clandestini, sebbene ancora privi di un seguito significativo, sebbene tutti vittime dello stesso sistema, Bordiga, Gramsci, Togliatti, Tasca e gli altri precursori del comunismo italiano non fecero che litigare per un decennio. Solo l’entrata in guerra del 1940 seppe coagulare le correnti interne in un unico fronte antifascista. Morto il fascismo, svanì anche la momentanea coesione.

Nel frattempo, come prevedibile, gli altri si misero d’accordo per spartirsi la torta e relegarono i rossi al ruolo di eterni secondi, di opposizione permanente, di antagonista inoffensivo in un dualismo artificioso. Nel 1944 Togliatti dovette scegliere se assumere il ruolo di opposizione al sistema o di opposizione nel sistema. Si fece un giro a Mosca e là gli dissero di accettare il gioco proposto dalla Trimurti.

Sarebbe stata preferibile una posizione moralmente intransigente? Era quello il momento di lottare? Probabilmente sì, ma le idee non erano chiare, mancavano le energie, mancava la volontà. Il PCI sarebbe dovuto nascere come alternativa al sistema della Trimurti ed invece accettò da subito il ruolo di comprimario all’interno del sistema. Avrebbe potuto essere un movimento popolare dal basso ed invece finì per essere un movimento di sinistra e questo, lo sappiamo, non significava nulla. Avrebbe potuto lottare per rendere l’Italia agli italiani ed invece finì per consegnare gli italiani alla Trimurti. Ne conseguì che il PCI non sedette mai in consiglio d’amministrazione, fu talvolta invitato ‘a latere’, divenne il sindacato degli operai nell’azienda dei padroni, il cuscinetto tra i tre potenti usurpatori e la massa di proprietari legittimi.

L’Italia divenne il set di un film in cui la DC faceva l’MI6 ed il PCI faceva la Spectre. Uno qualsiasi di quei film dall’esito scontato prima ancora dei titoli di testa. Nel 1944 Togliatti dovette scegliere se assumere il ruolo di antagonista perdente in un colossal già in piena produzione o quello di protagonista in un film a budget limitato che forse non sarebbe mai stato girato. Si fece un giro a Mosca e là gli dissero di accettare la parte. La favola della destra e della sinistra faceva comodo anche a loro.


Siamo al secondo capitolo della nostra breve storia della politica repubblicana. Il consiglio per chi non ne abbia ancora avuta occasione è quello di smettere subito di leggere e andarsene a spasso sotto le scie chimiche oppure a farsi una bella trombata nel terrore di prendere l’AIDS; per chi fosse capitato su questo testo senza aver cominciato la lettura dal primo capitolo, il consiglio è il medesimo.

Nel primo capitolo abbiamo visto come nel secondo dopoguerra si diffuse in Italia la favola della destra e della sinistra. Vedremo ora come evolse negli anni successivi. Furono i decenni del boom economico alimentato dal Piano Marshall. L’odierna consuetudine americana di esportare democrazia, distruggendo per poi ricostruire, era allora ai primi vagiti. In attesa di proseguire è d’obbligo spendere due parole sull’elettorato italiano di allora e di oggi.
Segue sino al capitolo 9

Abbiamo osservato come la politica repubblicana sia entrata rapidamente nell’immaginario collettivo degli italiani in veste geometrica lineare. Anche oggigiorno, con poche eccezioni, se chiediamo ad un italiano come si colloca politicamente, risponderà che è di sinistra, o di centro-destra, o di centro, o di estrema destra e via discorrendo. Questa consuetudine non è un costume esclusivamente italiano, tutt’altro, ma va detto che la gente non si colloca in questo modo in tutti i Paesi del mondo. L’elettore italiano, invece, ha interiorizzato la visione bipolare del panorama politico, la visione sinistra-destra. E’ straordinaria la diffusione di quest’ordine di pensiero nella testa della gente nonostante quasi nessuno sia pienamente consapevole di cosa significhi stare da una parte o dall’altra o men che meno di cosa sia un sistema bipolare. D’altronde si può essere investiti da un’automobile anche senza essere dei meccanici. La figura 2A riporta il semplice piano lineare sinistra-destra utile ad eseguire il test.



Messo di fronte a questo test, il cittadino italiano standard tende a collocarsi così:



Fin qui non ci piove. Collocare sul piano i partiti politici è il passo successivo. Se agli albori della repubblica avessimo chiesto ai neo-elettori di posizionare sul campo i comunisti e gli anticomunisti, intuitivamente, la maggior parte di loro se la sarebbe cavata così:



Probabilmente non è cambiato molto da allora.

La favola della destra e della sinistra ha la più classica delle trame duali, quelle dei buoni e dei cattivi per capirci. Un sistema politico bipolare si fonda sull’idea che ci sono due partiti: i blu da una parte e i rossi dall’altra. Sono due antagonisti che si piazzano ai lati del campo di gioco – a destra e a sinistra – e si contendono i voti disponibili che sono sparsi nel campo. Vince chi ne prende di più. La ragion d’essere dei partiti dovrebbe perciò alimentarsi di caratteri che li distinguono; le proposte agli elettori dovrebbero, a rigor di logica, divergere. Il motto dovrebbe essere: “Occorre caratterizzarsi per essere riconoscibili!” E chi fa le proposte più apprezzate la spunta sull’altro. Insomma… vinca il migliore!

Di questo è convinta la gente. Ma ciò non accade mai. Facciamo un esempio su tutti: dal 1948 al 1992, in quarantaquattro anni di vita repubblicana, i comunisti non sono mai andati al governo. Non ci si scappa, le spiegazioni possibili di tale evidenza storica sono due: o i comunisti si dimostrarono degli incapaci per tutto quel tempo oppure la sceneggiatura era già scritta. Oggi sappiamo che la parte ‘sinistra’ dello schieramento politico italiano fu per oltre quattro decenni un movimento ideologico senza speranze di successo governativo, fu l’antagonista designata perdente e non sarebbe mai potuta essere altro.

Vediamo come mai la figura 2C non rappresentava allora e non rappresenta nemmeno oggi la realtà. Prendiamo due casi opposti: un operaio sindacalista, attivista comunista, senza un soldo e con due figli da mantenere. Quest’uomo sceglierà di piazzarsi molto a sinistra nel campo. Le probabilità di farlo diventare un estremista di destra sono bassissime. Dall’altro lato un commerciante che sogna un mondo senza tasse. E’ un imprenditore – per antonomasia votato al liberismo – e si colloca ben alla destra della nostra rappresentazione. Difficile immaginarlo passare tra le fila del movimento operaio. I due elettori descritti sono inamovibili dalle loro posizioni perciò sono voti fondamentalmente già acquisiti dai due partiti antagonisti. In generale, gli elettori schierati sono pressoché imperdibili.

Per raggranellare voti nuovi, i partiti devono riuscire ad accattivarsi gli indecisi. Questi stanno nel mezzo del tabellone in quanto indecisi su dove andare, a destra o a sinistra? Per conquistarli, i due partiti devono avvicinare le loro promesse elettorali alle loro esigenze. E’ proprio quello che fanno abitualmente.

Un’immagine vale più di mille parole:



Una promessa dopo l’altra, avviene un fenomeno che si chiama ‘convergenza al centro delle promesse elettorali’ che è provocato dalla necessità di conquistare l’elettore moderato. La convergenza al centro è un fenomeno tipico dei sistemi bipolari – non solo di quello italiano – ed è il testimone principale della loro artificiosità. Se la tensione alla convergenza non venisse puntualmente corretta prima di giungere a maturazione, produrrebbe effetti disastrosi: deresponsabilizzazione della classe politica e disinteresse dell’elettorato fra tutti.

Nell’Italia neorepubblicana, l’intrinseca tendenza alla convergenza fu addirittura accelerata da molteplici peculiarità nazionali. Ciò costrinse la Trimurti a faticare non poco per trovare una soluzione stabile. Vediamo perché.

Anzitutto mancava una vera destra liberale. Gli Stati Uniti non la vollero o non la seppero creare, in parte per merito del tradizionalismo assistenziale ancora diffuso in tutta la società, in parte per l’assenza di un’alta borghesia finanziaria adeguatamente spregiudicata, in parte perché in troppi associavano ancora il concetto di destra all’esperienza del nazifascismo.

Stava infinitamente meglio il Papa che gestiva un enorme bacino elettorale tramite la sua secolare rete di propaganda in abito scuro. Il Vaticano, a quei tempi, era dei tre soci quello meglio attrezzato per le campagne elettorali. Per questa ragione ebbe inizialmente la fetta più grossa.

Le mafie, dal canto loro, erano destinate a condizionare completamente la vita – ed a maggior ragione le elezioni – in tutto il meridione del paese. Non essendo nella posizione di produrre un’entità politica autonoma, scelsero di farsi rappresentare in Parlamento da uno degli altri due soci. Le mafie scelsero il Vaticano, per ragioni ovvie di prossimità ed affinità (elettiva) ed armarono i propri portavoce di tritolo per attaccare e di uno scudo crociato per difendersi.

La tensione congenita dell’elettorato italiano alla convergenza verso il centro non permise la realizzazione di un vero bipolarismo. Gli americani fecero tesoro dell’esperienza italiana ed in seguito, altrove nel mondo, ebbero molto più successo. La Trimurti si adeguò creando un enorme contenitore per elettori moderati che fu chiamato Democrazia Cristiana. Ai dirigenti del Partito Comunista Italiano, non ancora soggetti al controllo diretto della Trimurti, fu offerto il ruolo (necessario alla trama) di alternativa mai vincente, di opposizione permanente. Nel 1944 Togliatti dovette scegliere: o accontentarsi del ruolo di antagonista perdente in un colossal già in piena produzione o ambire a quello di protagonista ma in un film a budget limitato che forse non sarebbe mai stato girato. Fece un salto a Mosca e là gli dissero di accettare la parte offerta da Hollywood. La favola della destra e della sinistra faceva comodo anche a loro.

Per quarantaquattro anni questa formula, con pochi aggiustamenti, funzionò egregiamente.





Siamo al terzo capitolo della nostra breve storia della politica repubblicana. Se non sei un lettore affezionato di TNEPD smetti subito di leggere, se invece arrivi qui dopo la lettura del primo e del secondo capitolo, spegni il computer e vai a fare qualcosa di meglio, tipo trombare.



Abbiamo visto come la favola della destra e della sinistra nacque nel secondo dopoguerra con una trama semplice ed efficace: due squadre antagoniste (i comunisti da un lato e gli anticomunisti dall’altro) ed una partita da giocare (le elezioni). La posta in palio? Il governo della repubblica, credeva il popolo. Le quote societarie della Trimurti, nella realtà dei fatti.

La favola era stata importata e diffusa nel secondo dopoguerra dai tre nuovi (e vecchi) proprietari dell’Italia– Stati Uniti, Vaticano e mafie – e motivata della recente introduzione in Italia della repubblica come forma di Stato e della democrazia rappresentativa a suffragio universale come forma di governo. Il sistema, abbiamo visto, aveva molti pregi – era modulabile, moderno e ben accetto dalle masse popolari – ma anche un grosso difetto: prevedeva che ogni tanto si facessero le elezioni. La favola della destra e della sinistra fu diffusa allo scopo di dare la possibilità alla gente di collocarsi da una parte o dall’altra del campo elettorale in un presunto sistema politico bipolare, ma ben presto fu adeguata alle idiosincrasie del popolo italiano.

L’idea anglosassone originale era semplice, accattivante. Ricordava vagamente il gioco del calcio ed anche per questa ragione prese subito piede nello stivale. A ciascuno era dato di scegliere tra essere comunista o anti-comunista ma in Italia, come stupirsene, la maggioranza della gente ‘scelse’ di essere indecisa o, se vogliamo, moderata. Viste le esperienze passate e le pressioni del Vaticano, in pochi osavano sbilanciarsi. Si creò una sacca d’elettorato posizionato al centro (tendenza comune ai sistemi bipolari ma particolarmente evidente da noi) indi per cui la Trimurti dovette escogitare una soluzione per continuare a dare senso alla competizione elettorale agli occhi della gente.

La Democrazia Cristiana, benché di bocca larga, non poteva contenere proprio tutti. Il partito era già diviso in correnti allo scopo di rappresentare alla meglio i vari padrini in Parlamento. Sotto il marchio comune ‘DC’ si celavano una corrente siciliana, una calabrese, una pugliese, una campana (per quanto riguarda le mafie) e naturalmente una nutrita componente romana in rappresentanza del Vaticano. Poteva bastare. Al grande centro furono perciò annessi dei satelliti, meno di una manciata di piccoli partitini presi in prestito dalle esperienze precedenti all’epoca fascista. PRI, PLI, PSDI, PSI. Repubblicani, liberali, socialdemocratici, socialisti. Ciascuno di essi, se non nella sostanza, era differente dagli altri per il nome e per la faccia del suo leader designato. Questo escamotage di poche pretese bastò a convincere gli indecisi. Certi di vivere in una democrazia, gli italiani andarono a votare numerosi.







Frattanto, all’insaputa del ‘popolo sovrano’, la Trimurti controllava direttamente la nomina della maggioranza dei parlamentari. Ciascuno dei tre soci metteva le sue pedine sulla scacchiera per giocare una strana partita il cui obiettivo non era vincere, ma solo raccogliere l’incasso del pubblico pagante. Nella migliore delle ipotesi, il popolo votando poteva dare la propria indicazione su chi, dei tre, lo stesse raggirando meglio. Quello, fino all’elezione successiva, avrebbe avuto sulla scacchiera più pedine degli altri.

La Trimurti occupò la fascia centrale del campo elettorale lasciando l’estrema sinistra e l’estrema destra a far da cornice senza alcuna speranza di successo effettivo. Gli Stati Uniti si accontentarono di consolidare la propria posizione nel settentrione sotto le sigle del Partito Repubblicano e del Partito Socialista Italiano che, nonostante il nome e le origini, poco o nulla aveva a che fare col socialismo.

Il sistema, con un numero adeguato di attori sulla scena, permetteva alla gente comune di riconoscersi vagamente sotto l’una o l’altra sigla. Le persone si collocavano sulla scala destra-sinistra per le motivazioni più varie. Quali che fossero le ragioni di ciascuno, duole riconoscere che furono del tutto ininfluenti. Chi votava comunista non avrebbe mai raggiunto una posizione di potere, chi votava i partiti della Trimurti non faceva che mettere la sua ‘preferenza’ nel calderone dei padroni.

Questo modo di gestire la politica presentava risvolti positivi ed altri negativi. Dal punto di vista della Trimurti, i primi superavano di gran lunga i secondi.

Nella realtà dei fatti il paese non era spalmato su una linea orizzontale da sinistra a destra, ma era diviso in zone geografiche fortemente caratterizzate. Il nord sotto l’influenza statunitense, il sud sotto il controllo delle mafie ed il centro che, anno dopo anno, divenne sempre meno rosso e sempre più catto-comunista, forse memore dei fasti del buon vecchio Stato Pontificio.

Il sistema elettorale era quello proporzionale senza scelta del candidato. Gli elettori potevano optare per un simbolo (una scelta del tutto ininfluente come abbiamo visto), mentre era la Trimurti a selezionare gli uomini, ossia burocrati e politici di professione la cui duplice funzione era di turlupinare il pubblico mettendo in scena una qualche forma di competizione politica mentre a sipario tirato applicavano alla lettera gli ordini dei padroni. Era necessario individuare qualcuno che fungesse da trait d’union tra le parti, una figura che incarnasse il costante dialogo tra Vaticano, mafie e Stati Uniti, qualcuno che tenesse sotto controllo deputati e senatori (a quei tempi i dirigenti stipendiati di più alto livello) i quali erano affetti dai mali congeniti del popolo italico (brama di denaro e qualunquismo) e già allora in gran parte massoni. Su indicazione di due dei tre soci, come amministratore delegato fu scelto Giulio Andreotti perché privo di quei difetti ed invece oltremodo dotato di costanza, d’astuzia e di cinismo. La convergenza al centro, di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo, fu assunta come una premessa inevitabile della politica italiana. La Trimurti la accettò e si preoccupò di mascherarla all’elettorato per non demotivarlo al voto ed al lavoro. Col tempo però, la deresponsabilizzazione dell’apparato dirigente divenne palese. Andreotti fece il suo sporco lavoro, per decenni, ma non poté arginare l’inarrestabile corruzione individuale che il sistema inevitabilmente produceva a tutti i livelli istituzionali ed amministrativi.

Calmierato da un mediatore d’eccezione, il Vaticano, in quegli anni il panorama politico italiano si rivelò tremendamente monotono ed efficace. La DC ed i suoi satelliti governarono indisturbati il Paese dal 10 luglio 1946 al 4 agosto 1983.



Nel frattempo però il mondo cambiava a vista d’occhio e l’Italia al suo seguito. Il boom economico statunitense era cominciato con laguerra ed era finito a metà degli anni ’70, quello europeo – più modesto – aveva i giorni contati. Il boom aveva parzialmente redistribuito la ricchezza tra le classi della società. Il bacino elettorale operaio diventava di giorno in giorno meno numeroso sia in senso assoluto che in senso relativo. Con la crescita economica esplose la piccola borghesia.

La classe media, nonostante fosse ancora una componente numerica minoritaria dell’elettorato, dimostrò ben presto la propensione a diventare la parte preponderante della società. La diffusione di una discreta istruzione di base fu sufficiente a ridimensionare l’appealdel Vaticano e delle mafie sulle menti di una parte degli italiani. Gli Stati Uniti al contrario stavano acquisendo un potere enorme in ambito internazionale. Europa, Giappone, Centro e Sud America si scoprirono ben presto loro colonie commerciali. Tutto ciò che era moderno, efficiente, redditizio e trendy era per forza di cose americano. L’inglese ed il dollaro divennero il vocabolario comune del mondo occidentale e gli Stati Uniti, agli occhi di tutti, i padroni del pianeta.

L’esempio statunitense, l’accessibilità ai mercati internazionali e la seppur ridotta redistribuzione del reddito tra le classi spinsero le intenzioni dell’opinione pubblica italiana nella direzione di un maggior liberismo. Il fascino e la paura del comunismo stavano scemando. La corruzione amministrativa si diffondeva a macchia d’olio. In generale l’elettorato si concentrò ancor di più attorno ad un polo centrale, ma il baricentro del sistema virò a dritta. Ne sarebbero scaturiti gli anni del ‘socialismo di destra’ tutto nostrano, gli anni dorati della Milano da bere. I soldi scorrevano a fiumi: le mafie (regionali e sovranazionali) finanziavano,Berlusconi moltiplicava, Craxi vidimava ed lo IOR ripuliva. Al popolo restavano le briciole, naturalmente, ma di briciole ne cadevano dal tavolo più che in passato. Craxi, Berlusconi e le banche divennero la trinità laica di chi si accontentava. Al Vaticano questo andazzo non andava proprio a genio, ma la grana era tanta e si poteva chiudere un occhio.







Al fragoroso collasso della ‘Milano da bere’ e della ‘Roma da magnare’ è stato dato il nome diTangentopoli, o Mani Pulite a seconda dei punti di vista da cui si osserva la faccenda. Cominciò nel 1992 e parve ai più (me compreso) una ventata di novità. Qualsivoglia fossero le intenzioni che muovevano la magistratura, oggi possiamo constatare che Mani Pulite a conti fatti non torse un capello al sistema. Il suo risultato più visibile fu di realizzare forzosamente il ricambio generazionale di una classe dirigente (i dipendenti della Trimurti seduti in parlamento) vecchia, corrotta e un pò troppo nazionalista agli occhi dei padroni. Tangentopoli fu comprensibilmente sopravvalutata dal popolo ma, a conti fatti, per la Trimurti – ma soprattutto per i potentati finanziari sovranazionali in piena espansione – fu un’ottima occasione per redistribuirsi le quote societarie ed ammodernare la favola della destra e della sinistra.



Siamo al quarto capitolo della nostra breve storia della politica repubblicana. Il consiglio per chi non ne abbia ancora avuta occasione è quello di smettere subito di leggere, di lavorare e di spendere denaro inutilmente; per chi fosse capitato su questo testo senza aver cominciato dal primo capitolo, il consiglio è il medesimo.



Abbiamo visto nei capitoli precedenti come l’Italia, uscita stremata dalla seconda guerramondiale, sia divenuta una repubblica democratica apparente nelle mani di tre padroni (o padrini se vogliamo): Vaticano, mafie e Stati Uniti. Abbiamo visto come i tre soci introdussero il sistema lineare destra-sinistra e come dovettero adattarlo alle idiosincrasie del panorama politico italiano. Abbiamo poi rapidamente ripercorso le vicende del sistema partitico nei sonnolenti decenni precedenti a tangentopoli.

Per poterci approciare con cognizione di causa al resoconto delle inchieste di Mani Pulite, urge un riepilogo delle ‘premesse’. Ripercorrere la storia della Prima Repubblica dal 1946 in poi è un esercizio utile a visualizzare una nostra interpretazione del gioco delle parti, ne faremo tesoro d’ora innanzi. Nella trattazione abbiamo utilizzato sovente la geometria per rendere più comprensibile non tanto la favola della destra e della sinistra in sé quanto la percezione deformata della realtà che essa produce nella testa della gente. Per essere ancora più esaustivi utilizzeremo anche una metafora.

Dobbiamo ammettere che Prepuzio Mussoloni (da queste parti ci piace chiamarlo così) non racconta solo frottole. Ne spara tante, questo sì, e purtroppo la gente crede a quelle e non alle poche cose vere che talvolta gli scappano di bocca. Quante volte, negli ultimi diciotto anni ha ripetuto agli italiani che dovevano imparare ad interpretare lo Stato come se fosse un’impresa? Il famoso stato-azienda fu il suo cavallo di battaglia al momento della discesa in campo del 1994. Nessuno ha preso davvero in considerazione il suo consiglio. A malincuore, lo faremo noi.

Se l’Italia della Prima Repubblica è un’azienda, a mio modo di vedere è una SRL. Una Società a Responsabilità Limitata la cui proprietà è divisa fra i tre soci che abbiamo chiamato Trimurti: il Vaticano (un’enorme Ditta Individuale), le mafie (in nero e a conduzione familiare), gli Stati Uniti (la più grande Società Per Azioni del pianeta). Come in ogni società che si rispetti, ognuno di questi ha diritto alla nomina di un certo numero di delegati e dirigenti ai vari livelli aziendali, secondo le sue quote. I nominati, ovviamente, opereranno primariamente nell’interesse del loro padrone ed in second’ordine nell’interesse dell’azienda ma, a conti fatti, nessuno dei soci è interessato a che l’impresa fallisca, ciascuno mira al proprio massimo profitto ed alla sopravvivenza della struttura che lo produce. I delegati compongono l’assemblea dei soci (il parlamento), i dirigenti il consiglio d’amministrazione (il governo). Tutti operano secondo le indicazioni dei proprietari per un’ottima ragione: sono loro che foraggiano la greppia. L’assemblea ed il consiglio svolgono un doppio compito. Il consiglio è preposto a raggiungere gli obiettivi indicati dalla Trimurti attenendosi per quanto possibile allo statuto aziendale (la costituzione), l’assemblea deve gestire i rapporti con i dipendenti di fascia più bassa: impiegati, operai, mano d’opera in genere. Questi ultimi, ossia il popolo, sono preponderanti a livello numerico sulla categoria dei dirigenti ed il sistema è congegnato proprio per tenerli lontano dalla stanza dei bottoni facendo loro credere di starci seduti dentro.

Non era sempre stato così. Secoli e secoli orsono, i primi padroni avevano vita più facile di quelli odierni. In origine, una qualsiasi azienda-stato era così: i proprietari (sovente uno solo, o meglio, una famiglia) decidevano, i dirigenti organizzavano, gli operai – in questo frangente chiamiamoli genericamente così – eseguivano. Anno dopo anno, rivoluzione dopo rivoluzione, gli operai ottennero il diritto di poter eleggere i propri rappresentanti in un’assemblea che intendeva essere un tavolo di discussione tra operai e proprietari. In seguito gli operai vollero ed ottennero sempre più rappresentanti fino a che non pretesero di trasformare l’azienda in una cooperativa. I proprietari (monarchi, re, papi) erano molto ricchi, ma gli operai (il popolo) erano tanti. A quel punto taluni proprietari accondiscesero a generose mediazioni, altri non vollero sentir ragione e li affrontarono a muso duro. Vi abbiamo accennato nel primo capitolo. A conti fatti, nella sostanza, nessuno Stato vecchio e nuovo sarebbe mai divenuto una cooperativa.

Torniamo a noi. Dopo mille peripezie ed all’insaputa di tutti, nel 1943 l’azienda-Italia fu rilevata sottobanco, sull’orlo del fallimento, da quella che oggi chiameremmo ‘una cordata di investitori’ (noi li abbiamo definiti armatori di un vascello scampato al naufragio). Vecchi titolari (Avanti Savoia!) e dirigenti (il regime fascista) furono estromessi. A quel punto tutte le opzioni erano possibili. I tre nuovi proprietari dell’impresa, la Trimurti, optarono per la SRL come forma societaria ma si videro costretti dalla congiuntura storica a registrarla, nel 1946, come cooperativa alla camera di commercio (l’ONU di freschissima costituzione). Per questa ragione, abbiamo detto fin dalle prime battute, la Repubblica Italiana fondata sul lavoro nacque affetta da una contraddizione: era una SRL ma gli operai la credevano una cooperativa.

La Trimurti chiese ai suoi dirigenti di svolgere un doppio ruolo:amministrare per i proprietari e recitare per gli operai. Per quasi cinquant’anni i dirigenti assolsero egregiamente alla loro funzione sotto l’attenta regia di uomini come De Gasperi, Fanfani e – primus inter pares– Giulio Andreotti, distinguendosi soprattutto nel secondo obiettivo, recitare con gli operai. Sulla base di unformat bipolare di grande successo internazionale ma inadatto al pubblico multipolare italiano, seppero infatti accattivarsi il sostegno del settore ‘impiegatizio’ dell’azienda relegando il sindacato operaio (il Partito Comunista) al ruolo di antagonista e presunto nemico designato del sistema. Seppero alimentare e gestire le lotte intestine tra le fila dei dipendenti. In altre parole convinsero gli impiegati a prendersela con gli operai e viceversa. Divide et impera. Nel frattempo, per salvare le apparenze e per comprendere quale dei tre soci avesse più appeal sui dipendenti, che dovevano lavorare e spendere per arricchire proprietari ed azienda, indissero dieci consultazioni elettorali, le dieci legislature della Prima Repubblica.

Come la vedevano gli operai e gli impiegati? D’ora innanzi, quando vorremo parlare indistintamente di tutti coloro che non sono né dirigenti né proprietari, riuniremo tutte le sotto-categorie in una sola macro-categoria che chiameremo pueblo, termine che ci pare assonante alla condizione di totale subalternità della volontà che le accomuna. Insomma, come la vedeva il pueblo?

Il pueblo andava a lavorare, a spendere e a votare certo che l’impresa fosse una cooperativa e dunque convinto di scegliere la composizione della dirigenza (quella che con un termine tipicamente italiano usiamo definire classe politica) ed in questo modo il suo avvenire. Si lasciò cioè convincere di due premesse del tutto false: 1. che la dirigenza fosse il potere più alto dell’azienda; 2. che la dirigenza lavorasse per il pueblo.

La situazione reale, vista da fuori, era paradossale. Operai ed impiegati dovevano lavorare per arricchire l’azienda (perché ciò fosse chiaro, i fondatori si affrettarono a specificarlo nell’articolo 1 dello statuto) ma al contempo dovevano finanziarla con una parte dei loro salari (far loro credere che fosse una cooperativa dava grandi benefici ai proprietari). Ad aggravarne l’esistenza, operai ed impiegati soffrivano di una costante condizione psicologica di insoddisfazione senza averne coscienza. Provocata dall’incolmabile discrepanza tra le aspettative immaginabili ed i risultati ottenibili, questa insoddisfazione permanente li motivava al lavoro per scopi del tutto egoistici e li demotivava all’aggregazione ed al dialogo. Ciascuno avrebbe voluto essere qualcosa d’altro, ottenere una mansione meno faticosa, avere un ufficio più spazioso, passare al piano superiore. A quelle menti semplici tenute in uno stato di patologica insoddisfazione, la scarsezza delle risorse pareva la condizione naturale dell’esistenza ed il prossimo un pericoloso concorrente nella corsa ad accaparrarsi la briciola più grossa. Ciascuno finì per vedere in ogni altro un concorrente ed infine un nemico.

L’ ‘homo homini lupus’ hobbesiano si rivelò quindi la giusta interpretazione dell’umanità? Forse, oppure a qualcuno molto potente e cinico fece comodo farlo credere agli altri. Ed i più ancora ci credono.



Siamo al quinto capitolo della nostra breve storia della politica repubblicana. Il consiglio per chi non ne abbia ancora avuta occasione è quello di trombare finché è in tempo, il più possibile. Chi arrivasse qui dopo aver letto il testo fin dal primo capitolo ha tutta la mia comprensione ma farebbe bene a prendere esempio dagli altri che non hanno perso tempo ed in questo momento stanno già trombando.



Immerso nelle alchimie aziendali fino al collo e del tutto ignaro della sua reale impotenza, il pueblo lavoratore conduceva una vita di stenti e privazioni. Vien da chiedersi come un così gran numero d’individui potesse supplire ad una condizione tanto deprimente di solitudine competitiva. Presto detto. Col matrimonio, coi vizi e con le elezioni. Tre faccende di cui la Trimurti s’occupava da tempo. In questa sede tratteremo solo delle elezioni, rimandiamo ad un altrocontesto le disquisizioni sui vizi e il matrimonio.

Abbiamo visto come l’atto di votare la dirigenza aziendale, grazie all’astuto sistema elettorale, non corrispondesse all’atto di sceglierla. Il pueblo partecipava allo show come comparsa volontaria, ininfluente e addirittura pagante. L’obiettivo reale dello spettacolo era la sua stessa messa in scena, non era il risultato delle urne ma l’atto illusorio di votare. Nell’ottica della Trimurti, il dato più importante delle tornate elettorali era l’affluenza ai seggi, indice del coinvolgimento della massa lavoratrice nell’illusione. Se operai, impiegati, segretarie, fattorini, manovali, ragionieri, autisti, elettricisti, meccanici, commercianti, agenti… insomma se la gente comune (il 99% degli italiani) avesse saputo che il suo voto non contava nulla, non sarebbe andata a votare. Se avesse saputo che dietro ai partiti non c’erano né ideologie né valori ma che c’era soltanto gente molto ricca che si spartiva un pò di potere, non sarebbe andata a votare. Se il pueblo avesse avuto chiara la situazione, ossia che non erano date prospettive differenti da quelle decise dai proprietari, non sarebbe andato a votare. Oltre a non andare a votare, se la gente comune avesse avuto idea di tutto questo, si sarebbe presumibilmente incazzata ed avrebbe quanto meno smesso di lavorare e di pagare le tasse.



Le tasse, ci ritorneremo forse un giorno, sono uno strumento geniale nelle mani della proprietà. Il lato comico dell’invenzione non è l’altezza della montagna di denaro raccolta dall’erario ogni anno, il paradosso è che quel denaro non serve assolutamente a nulla. Perora ci preme sottolineare che le tasse assumono, tra le altre funzioni utili alla proprietà, anche quella di illudere le masse lavoratrici dell’esistenza di un costoso apparato dedicato a loro. Ci è ormai chiaro quanto la Trimurti tenesse a che gli operai non si accorgessero di essere solo una ‘forza lavoro’ la cui opinione era del tutto ininfluente, ma credessero di avere voce in capitolo sul proprio destino e su quello dell’azienda. Il Parlamento italiano era ed è dedicato a questo scopo.

A tal proposito torniamo alle origini della nostra azienda-Italia. Al termine del secondo conflitto mondiale la Trimurti scelse il sistema democratico repubblicano perché c’erano tre proprietari da mettere d’accordo, perché il momento storico era adatto e perché era la ragione per cui gli americani avevano fatto tutta quella strada. Gli Stati Uniti speravano di metter su una bella SPA ma si accorsero ben presto che, nonostante gli sforzi, si sarebbe potuta partorire al massimo una SRL. La democrazia americana era invece, per antonomasia, la Società Per Azioni meglio riuscita e per questo la più vincente del pianeta. Le monarchie assolute, per fare degli altri esempi, sono in genere assimilabili alle Ditte Individuali, le moderne monarchie costituzionali alle SAS, Società in Accomandita Semplice e via discorrendo.

Nella travagliata SRL italica che si credeva una cooperativa, l’ultimo quesito preliminare che si posero i proprietari fu: come facciamo a nominare noi l’apparato amministrativo (Camera, Senato, Ministri) facendo credere agli operai di averlo fatto loro? La soluzione fu trovata in un baleno, ne abbiamo già accennato: fu adottato un sistema elettorale proporzionale senza scelta del candidato. Il pueblo si sarebbe scannato intorno ad acronimi e sigle che poi i tre soci avrebbero riempito a piacimento, proporzionalmente al valore delle rispettive quote.

Possiamo ora lasciare la nostra “metafora aziendale” e tornare ad occuparci della storia repubblicana. Ci stiamo predisponendo all’analisi degli eventi che si svolsero tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90. L’Italia li subì come il resto del pianeta. Benché ad oggi ancora sottovalutata, quella stagione dell’umanità sarà probabilmente ricordata in futuro comeil punto di svolta fra la fase adolescenziale e la fase matura del capitalismo, come l’incipit dell’ultimo capitolo del primo volume di quella che, ci auguriamo tutti, sia almeno una trilogia. In quegli anni – una data precisa sarebbe arbitraria – l’occidente capitalista entrò nella fase calante, nell’ultima tappa del processo auto-distruttivo dell’intero sistema. In un mondo che aveva fatto il callo alle (presunte) rivoluzioni dal basso, nel 1989 prese vita la prima rivoluzione pubblica dall’alto, silenziosa e devastante. Il momento che talune grandi famiglie attendevano da generazioni era arrivato. I grandi padroni sciolsero i propri legami dai confini nazionali, presero coscienza dell’estensione planetaria delle loro influenze, sul loro regno non tramontava mai il sole.

Il popolo di ciascuno Stato, nel suo piccolo, potè osservare soltanto alcuni sintomi periferici di ciò che accadeva nel sistema nervoso centrale della civiltà, ignaro delle cause che li producevano. La fine della guerra fredda, celebrata dalla caduta del muro di Berlino senza un colpo di fucile e dalla costituzione dell’Unione Europea col misconosciuto ma osannato trattato di Maastricht, furono eventi che avrebbero lasciato un segno indelebile sul futuro dell’umanità. I padroni rimapparono la genetica del potere su scala planetaria mentre il popolo guardava altrove.



Siamo al sesto capitolo della nostra breve storia della politica repubblicana. Il consiglio per chi non ne abbia ancora avuta occasione è quello di trombare finché è in tempo, il più possibile. Chi arrivasse qui dopo aver letto il testo fin dal primo capitolo ha tutta la mia comprensione ma farebbe bene a prendere esempio da chi non ha perso tempo ed in questo momento sta già trombando.



Dopo il breve accenno dedicato al riassetto del potere in ambito internazionale, torniamo a dedicarci allo stivale. Il panorama dell’elettorato italiano era cambiato dal 1948 al 1983. Gli analfabeti totali ormai erano una minoranza, gli operai erano sulla via di diventarlo.

La piccola borghesia aveva preso il sopravvento. I contadini non esistevano più, ora c’erano gli “imprenditori del settore primario” con la mercedes 250 grigia alimentata a gasolio agricolo e quattro trattori che facevano il lavoro di cinquecento contadini. La classe povera (almeno il 50% della popolazione nel 1948) stava sparendo e s’assiepava alle periferie delle metropoli. Nei quartieri ‘popolari’ vivevano i “piccoli borghesi”, sposati in genere con donne bruttine (la regola era ancora: il marito in ufficio e la donna a casa), aggrappati con tutta l’anima al destino del primogenito che era stato assunto alle Poste e del secondogenito che avrebbe partecipato al concorso del ministero appena uscito da ragioneria.

Chi aveva investito nel trentennio del boom (1950–1980) aveva messo tanti soldi da parte. Non molta gente, in verità, poiché le prime ad abbeverarsi al fiume di denaro che scorreva furono le aziende statali e le compartecipate dallo Stato con relativi Mandarini. Un buon mezzo milione di imprenditori e professionisti onesti riuscì in quegli anni a mettere una seria ipoteca sull’avvenire dei suoi figli. Un gruppo più ristretto di individui, qualche migliaio di pezzi grossi, aveva già partecipato al gioco negli anni del pentapattuito ed approfittato della collusione col sistema della Trimurti per arricchirsi oltre la soglia della decenza. Questa élite economica trasversale, dalla dubbia tempra morale, sarebbe divenuta nel decennio successivo l’interprete più calzante per il nuovo format della politica italiana.

Per quasi quarant’anni tutto era filato liscio oltre ogni più ottimistica previsione. La formula era semplice: la Trimurti controllava il pentapartito ed il pentapartito controllava il Paese. I movimenti del ‘68 avevano prodotto tanto fumo e nessun arrosto. A conti fatti, per il Partito Comunista, si rivelarono controproducenti. La deriva a sinistra aveva coinvolto solo una ristretta cerchia di intellettuali moderati mentre taluni intellettuali di sinistra avevano percorso la corsia opposta. Si incontrarono a metà strada in un luogo ameno che avrebbe assunto mille nomi nel futuro e che possiamo geometricamente definire centro-sinistra. Passata l’iniziale sfuriata giovanile, il pueblo si rieducò docilmente alla moderazione e tornò ad affollare il centro. Non era accaduto nulla di trascendentale, il sistema non aveva subito traumi. Al ‘68 seguì un decennio tragico durante il quale centinaia di giovani ignari – armati e fomentati dalla dirigenza – si tolsero reciprocamente la vita in una guerra tra vittime che è passata alla storia sotto il nome di “strategia della tensione”. Furono gli anni di piombo, quelli delle Brigate Rosse, Ordine Nuovo, Potere Operaio, Ordine Nero, Autonomia Operaia, Fronte della Gioventù, Avanguardia Operaia. Furono anni di attentati e talvolta persino di stragi. Divide et impera, come sempre i padroni ne trassero beneficio. Nelle pagine di cronaca, i resoconti degli atti di violenza ideologica delle bande armate si mescolavano alle gesta dei picciotti mafiosi mossi da intenti di gran lunga più pragmatici, divenendo un tutt’uno agli occhi dei più. L’interpretazione dei distinguo fra lotta di classe e criminalità comune era una pratica alla portata di pochi. Frattanto, dietro le quinte del potere, gli affari della Trimurti si ingigantivano.

Verso la fine degli anni ‘70, Stati Uniti, mafie e Vaticano si convinsero che era necessario riscrivere la favola della destra e della sinistra per renderla credibile ad un pueblo elettorale che aveva cambiato volto facendosi turbolento oltre il sostenibile. Urgevano aggiornamenti. Non c’è alcun dubbio che del progetto si occuparono principalmente gli analisti anglosassoni e vaticani. Sull’asse orizzontale, l’opzione ideologico-antropologica ‘comunisti vs anti-comunisti’ fu scalzata (o per meglio dire arricchita) da quella socio-economica che opponeva l’assistenzialismo socialista del “più Stato e più tasse” a sinistra al liberismo del “meno Stato e meno tasse” a destra. Questa versione evoluta della favola permise alla gente comune di far propria una nuova terminologia nelle discussioni al circolino. Conservatori e progressisti erano i nuovi antagonisti. Ai richiami ideologici internazionali si aggiungeva ora preponderante un dibattito pratico sul vil denaro. L’attenzione malferma del pueblo si concentrò sulla condizione economica degli individui. I ricchi a destra ed i poveri a sinistra. Quello che ai più parve un progresso nella definizione delle parti provocò, alla prova dei fatti, l’esplosione del materialismo nelle scelte individuali e del razzismo sociale nelle relazioni interpersonali. L’americanizzazione della società stava dando i suoi frutti.

Fino alla fine degli anni ‘70 gli Stati Uniti si erano accontentati dei benefici finanziari e bellici che la loro quota di proprietà consentiva. L’Italia era divenuta la principale base militare americana in Europa ed il settentrione una fiorente colonia commerciale. Solo quando l’influenza statunitense in ambito internazionale divenne una realtà consolidata in tutti i settori, ossia quando l’americanizzazione dei costumi – e dei consumi – cominciò ad essere definita globale, gli analisti d’oltre oceano decisero di promuovere il restyling della competizione politica nelle colonie e di intervenire con decisione anche in campo amministrativo. Lo fecero in Sud America, in Oriente e nella vecchia Europa. Ovviamente intervennero con decisione anche in Italia.

I protagonisti in parlamento rimasero gli stessi, ma il 4 agosto 1983 – i più lo vennero a sapere dal bagnino – le redini del governo passarono ai socialisti, al rappresentante degli Stati Uniti in consiglio d’amministrazione: Bettino Craxi. Sappiamo come andò a finire.



Siamo al settimo capitolo della nostra breve storia della politica repubblicana. Il consiglio per chi non ne abbia ancora avuta occasione è quello di trombare il più possibile, il tempo stringe. Chi arrivasse qui dopo aver letto il testo fin dal primo capitolo ha tutta la mia comprensione ma farebbe bene a prendere esempio da chi non ha perso tempo ed in questo momento è già in circonvallazione.




A ciascuno il gesto che si merita

Negli anni ’80 il mondo cambiò più di quanto in genere si creda e con esso gli equilibri del potere. L’Unione Sovietica si decompose a vista d’occhio, il muro di Berlino venne giù alla prima picconata. La storiella degli ammericani buoni da una parte e dei comunisti cattivi dall’altra aveva fatto il suo tempo. Per rispolverare lo charmeammericano servivano nuovi nemici e nuove guerre, possibilmente calde. Il Medio Oriente petrolifero era già allora una colonia statunitense amministrata da agenti dei servizi. Il primo della lista degli spodestabili rispondeva al nome di Saddam. Saddamorì. Fu il primo di una lunga serie (ancora in corso) di colpi di Stato.

Il golpe in Italia ricevette due etichette, Tangentopoli o Mani Pulite, a seconda del lato delle sbarre da cui si osserva. Non ci perderemo nel racconto di ciò che accadde. Ci basti ricordare che la situazione raggiunse una criticità sufficiente a mettere in discussione la credibilità del sistema. Se il pueblo si fosse accorto nitidamente che la favola della destra e della sinistra era una balla, in quel momento sarebbe potuta forse scoppiare una piccola rivoluzione. Lo shock fu tale da far preludere a cambiamenti sostanziali.

C’era persino chi pareva convinto di poterla fare per davvero la rivoluzione. Tra questi si fece notare il Condor di Cassano Magnago che nei suoi comizi tentava di far combaciare l’asse politico con la realtà. “La destra e la sinistra non esistono!” urlava nelle orecchie a quello che oggi conosciamo come popolo padano. “Esistono il nord , il centro ed il sud!”. Almeno in questo aveva ragione. Per fare presa su gente che tra un gesto dell’ombrello (la versione padana del braccio teso o del pugno levato) e l’altro non riusciva a comprendere la sottigliezza delle sue analisi, il Condor utilizzò gli strumenti più variopinti e populisti, il fine giustificava i mezzi.

Mentre i magistrati facevano man bassa delle vecchie gerarchie dei partiti della prima repubblica con una facilità inconsueta, fervevano i preparativi per ciò che sarebbe avvenuto poi. Stati Uniti, mafie e Vaticano dovevano riscrivere la favola della destra e della sinistra per renderla credibile ad un pueblo elettorale che aveva cambiato volto. Urgevano aggiornamenti. Come al solito del progetto si occuparono degli stranieri, analisti anglosassoni e vaticani. Per non essere prese sottogamba nella nuova spartizione del potere, con una rapida ed efficace strategia fatta di stragi ed attentati le mafie ricordarono agli altri soci di non aver perso vigore, anzi di essersi evolute e – a loro volta – americanizzate. Il Papa (che, ricordiamolo, è il re del Vaticano) andò di persona in Sicilia per confermare tra le lacrime che aveva recepito il messaggio.

In Italia, le vicende giudiziarie milanesi avevano raccolto grande eco sui media ed il tema della corruzione era divenuto di primaria importanza nell’immaginario collettivo.Per restituire credibilità al teatro della politica italiana servivano nuovi sceneggiatori ed attori di prim’ordine.





Giunti a questo punto l’analisi si fa un pò più complicata. Per comprendere come si produsse la ‘discesa in campo’ di Prepuzio Mussoloni nel contesto di Mani Pulite, dobbiamo modificare il piano lineare sinistra-destra in un piano cartesiano a due dimensioni. Sull’asse orizzontale, la variabile politico-ideologica ‘comunisti vs anti-comunisti’ fu scalzata (o per meglio dire arricchita) da quella socio-economica che opponeva l’assistenzialismo del “più Stato e più tasse” a sinistra ed il liberismo del “meno Stato e meno tasse” a destra. Sull’asse verticale, si veda la figura 9, introduciamo una nuova variabile di posizionamento sul campo: lacorruzione. Nelle figure che seguono, a seconda che le si interpretino dal punto di vista del pueblo o dei padroni, l’asse verticale assume due significati vettorialmente simili: per l’establishment (che la conosce e l’accetta) è un valore effettivo di “quantità di corruzione nel sistema”, per il pueblo (che la intravede e la sopporta) è un valore di “sensibilità alla corruzione percepita”.



Nella figura 9, la massa azzurra degli elettori orfani di rappresentanza si compone di un tronco e di un cappello. Più un elettore è posizionato in alto, più è sensibile al tema della legalità. Una collocazione bassa indica invece elevata accettazione della corruzione. Il tronco centrale descrive la massa di elettori delusi e disinteressati che si produsse nel corso di tangentopoli. Il cappello superiore raffigura la massa altrettanto copiosa dei cittadini moderatamente più informati ma soprattutto ipersensibilizzati al tema della legalità. L’elettorato italiano si presentava così dopo le scosse telluriche di Tangentopoli. Il pentapartito (il precedente contenitore per tutta quella gente) si era vaporizzato. Dalla prima repubblica era rimasta poca cosa: a sinistra un partito comunista in piena crisi d’identità che – invece che approfittare del vuoto di potere – cominciava a scindersi in correnti, a destra revanscisti fascistoidi malvisti dai più, nel mezzo un movimento populista settentrionale in rapida ascesa. Nonostante fossero ancora poca cosa, queste tre formazioni erano destinate ad assorbire parte della massa azzurra di elettori rimasti orfani di rappresentanza. In cabina di regia furono presi provvedimenti tempestivi. Tu cosa avresti fatto?



Siamo all’ottavo capitolo della nostra breve storia della politica repubblicana. Il consiglio per chi non ne abbia ancora avuta occasione è quello di trombare il più possibile, il prima possibile. Chi arrivasse qui dopo aver letto il testo fin dal primo capitolo ha tutta la mia comprensione ma farebbe bene a prendere esempio da chi non ha perso tempo ed in questo momento è già in tangenziale.



Prima di vedere cosa decisero di fare i proprietari, ricapitoliamo brevemente la situazione.

Nel 1948 mafie e Vaticano avevano fatto squadra in assemblea. I due soci “residenti” (pardon, il Vaticano è a tutti gli effetti uno Stato straniero quanto gli USA, una monarchia assoluta per l’esattezza, ma lo consideriamo residente per ragioni geografiche) avevano gestito gran parte della politica aziendale. Per quattro decenni abbondanti tutto era filato liscio oltre ogni più ottimistica previsione. La formula era semplice: la Trimurti controllava il pentapartito ed il pentapartito controllava il Paese. Alla fine degli anni ‘80, gli americani avevano rosicchiato parecchie quote e potevano considerarsi soddisfatti. L’azienda non rischiava la bancarotta nonostante l’inettitudine della dirigenza nazionale e locale. La gran parte dei dirigenti e dei burocrati erano sfacciatamente corrotti, ma questo faceva parte delle regole del gioco. La gente comune sopportava e tirava a campare, come sempre. Pochissimi, vent’anni fa, mettevano in dubbio la bontà intrinseca del sistema capitalista nel contestodemocratico italiano. Nonostante ciò, il padronato mise in atto Mani Pulite, una drastica opera di scrematura tra le fila dei dirigenti e delegati.

Oltre le apparenze, i cambiamenti più significativi non stavano avvenendo nelle aule di tribunale e nemmeno a Roma, ma su una barca. Una grossa tinozza di lusso, il panfilo Britannia. Tra uno scotch ed una tartina di caviale, i nuovi (e vecchi) padroni si spartirono il bottino mentre oscuri analisti ridisegnavano il gioco della destra e della sinistra per aquetare gli operai affinché continuassero a votare, lavorare e spendere quanto e più di prima.

Cos’era successo? Era successo che tutti e tre i soci della Trimurti avevano, anno dopo anno, ceduto parte delle loro quote ad un quarto socio. Uno che, a dire il vero, c’era sempre stato ma fino a quel momento aveva preferito restare nell’ombra accontentandosi di accumulare i dividendi. Uno che aveva quote in talmente tante attività pubbliche e private da non potersi presentare ad ogni riunione. Uno che fino ad allora non aveva imposto la sua linea ma aveva modellato quella degli altri tre. Questo quarto socio era sempre stato ben accetto perché assomigliava un pò a tutti gli altri. Era cinico come gli Stati Uniti, spietato come le mafie e avido come il Vaticano. Questo quarto socio era il cartello di banche che controllavano buona parte del sistema monetario mondiale. I cosiddetti Banksters. La Trimurti ci aveva sempre convissuto e ne aveva sottovalutato il lento rosicchiare.

Con Mani Pulite, i Banksters fecero spazio alla loro poltrona in consiglio d’amministrazione.



Degli altri, il Vaticano era quello che su suolo italico si era indebolito di più, il suo carisma persuasivo allo scadere del millennio non era quello del dopoguerra. Al sud aveva raggiunto un’eccellente integrazione con le mafie ma, anno dopo anno, gli analisti papali erano costretti ad ammettere tra le lacrime che il declino della fede era un dato di fatto. I boss con la rivoltella in mano, i padrini italo-americani, gli attori del piccolo e grande schermo esercitavano sulle nuove generazioni molto più fascino dei parroci di provincia. La cinematografia holliwoodiana, a tal proposito, contribuì con pervicacia a questo scopo. Nonostante ciò, il Vaticano aveva ancora numerose frecce al suo arco: immense ricchezze accumulate nei secoli, un copioso flusso di cassa derivante dalla gestione del controllo sociale in molti Paesi del terzo mondo fornitori di materie prime e mano d’opera a buon mercato e i migliori strumenti finanziari per le operazioni off-shore. Senza scordarsi di dio, che nei momenti critici è l’ultima speranza per tutti.

Sta di fatto che i rapporti di forza erano sensibilmente cambiati.

Chiarite le dinamiche padronali, possiamo tornare all’elettorato italico utilizzando il piano cartesiano che abbiamo introdotto nel settimo capitolo.





La grossa T azzurra rappresenta la massa di elettori che aveva da sempre votato il pentapartito. Questa massa di moderati, incerti e delusi aveva visto i suoi “presunti” rappresentanti trasferirsi uno dopo l’altro dalle rosse poltrone (non solo romane) alle panche ruvide delle prigioni (non solo milanesi). Le principali forze sopravvissute sul campo erano i comunisti (oramai scissi in due correnti), i leghisti ed i missini. Per economicità espositiva, ignoreremo le altre minuscole entità presenti ma prive all’epoca della minima significanza effettuale (ambientalisti, tirolesi e via discorrendo).

I catto-comunisti figli del ‘68 erano pienamente predisposti alla collaborazione, non vedevano l’ora. Idem dicasi per i missini che per un pò di potere erano pronti a tendere il braccio in qualsiasi direzione. L’unica formazione politica parzialmente sbrigliata dai tentacoli massonici era la Lega Nord, un pò perché la base era di recente formazione, un pò perché il movimento era populista e rivolto a classi sociali non avvezze a compassi e grembiulini.

Se da una parte il padronato sapeva di poter controllare le alte dirigenze di tutti i partiti sopravvissuti a Mani Pulite (nessuno già allora aveva l’armadio vuoto), dall’altra era necessario evitare che questi acquisissero consensi imprevisti, specie la Lega. La contingenza era davvero favorevole, l’elettorato orfano di rappresentanza era numeroso. I padroni agirono – ovviamente – prima e meglio di chiunque altro, applicarono una cura utile ad evitare che gli orfanelli finissero per riempire il parlamento di cani sciolti. Il suppostone era un vecchio cialtrone già allora, ma un numero impressionante di utili idioti se ne innamorò perdutamente. Prepuzio Mussoloni venne scelto principalmente perché era ricattabile – per i suoi vizi, le sue truffe ed i suoi interessi finanziari attivi – ma anche perché era l’interprete ideale della tragicommedia a cui abbiamo assistito negli ultimi vent’anni.



Gli analisti politici si preoccuparono anzitutto di inquadrare la zona elettorale in cui far confluire gli orfani del pentapartito. Tale zona grigia, riportata nella figura 12, era un rettangolo i cui lati non erano posti a caso. Il limite superiore era fissato al livello di corruzione minima necessaria a mettere in scena lo spettacolo (corruttibilità gongenita alla selezione dei candidati i quali dovevano essere naturalmente predisposti a mentire ai loro concittadini mentre servivano i padroni). Il lato inferiore della zona era congruente al livello di massima corruzione sopportabile dal sistema (l’esperienza di Tangentopoli aveva reso più nitido questo limite). La zona grigia era, per mille ragioni che abbiamo sviscerato nei capitoli precedenti, disposta al centro effettivo dell’asse sinistra-destra. La sua larghezza dipendeva dai fondi che i soci intendevano investire nella ‘campagna acquisti’.

Ora si trattava di riempirla, ma con cosa? Un sistema molto frammentato di piccoli partiti? Da escludere categoricamente. Non sarebbe stato ben visto dall’opinione pubblica ed avrebbe favorito le formazioni esterne alla zona. Un nuovo grande centro? Alla luce dei ricordi recenti non parve la soluzione più accattivante. Gli italiani, benché di poche pretese, chiedevano rinnovamento. Il pool di Milano aveva scaldato gli animi delle masse sedute trepidanti davanti al televisore. La rappresentazione andata in scena ininterrottamente nei quarantasei anni precedenti, con tutta la buona volontà, era un format che non si poteva riproporre tale e quale senza incorrere in un’inevitabile perdita di audience. Il mondo era entrato a piè pari nell’era della comunicazione di massa. Ai toni compassati della diplomazia vaticana si erano sostituiti quelli rampanti del miracolo economico. Per realizzare l’update era necessario ricominciare tutto daccapo, dalla favola della destra e della sinistra.

Nel tripudio delle folle, i meglio intellettuali di casa nostra rispolverarono il buon vecchio bipolarismo tentato nel ‘48 spacciandolo come l’ultima novità in voga un pò ovunque nel mondo. Era una delle tante credenze che ancora oggi vengono iniettate nelle testoline di chi ci casca dai media di massa e dagliopinion leaders prezzolati. Nel corso del 1993, la propaganda padronale convinse gli italiani che il bipolarismo era fico ed il proporzionale no. La cosa venne plebiscitariamente accettata dal pueblo perché “Se si fa così anche là, là e là ci sarà pure una ragione!” Là e là erano Inghilterra e Stati Uniti.

Le trama dell’ultima release della favola della destra e della sinistra sembrava sulla carta meno avvincente della sua ava ma nella pratica si sarebbe dimostrata spumeggiante grazie alle straordinarie doti degli attori protagonisti.



Siamo al nono ed ultimo capitolo della nostra breve storia della politica repubblicana. Il consiglio per chi non ne abbia ancora avuta occasione è quello di trombare il più possibile, il prima possibile. Chi arrivasse qui dopo aver letto il testo fin dal primo capitolo ha tutta la mia comprensione ma farebbe bene a prendere esempio da chi non ha perso tempo ed in questo momento è già in circonvallazione.




Giuliano Amato

Nel 1992 e 1993 i padroni nominarono alcuni governi tecnici. Tra questi, persino uno sfacciato gabinetto diretto da Giuliano Amato, il ‘numero 2’ del Partito Socialista di Craxi, proprio lui, il più eccellente imputato di Mani Pulite. Gli italiani si ritrovarono due socialisti protagonisti sia in tribunale che in parlamento, ma non raccolsero la provocazione.

Questi governi tecnici si occuparono della spoliazione del patrimonio dello Stato. I nuovi soci di maggioranza dell’azienda-Italia, i Banksters, non si accontentavano di controllare gran parte dell’amministrazione. I loro piani erano chiari già allora: ‘privatizzare’ più attività pubbliche possibili allo scopo di svuotare l’azienda dei suoi reparti migliori. Perché? Per ragioni di interesse, ovviamente. E’ Wall Street, baby. Ed è semplice nella sua crudezza.

Immagina di riuscire (qualsiasi mezzo è buono, non siamo qui a fare moralismi) ad ottenere le quote di controllo di un’azienda “A” che condividi con altri azionisti a te più o meno graditi. Hai l’occasione di vendere a prezzi stracciati ciò che c’è di buono di questa azienda “A” ad un altra azienda “B” che invece è tutta tua. Vendi a te stesso, per due lire, i pezzi pregiati (le infrastrutture e le attività più redditizie) e lasci quello che non ti interessa, compresi gli operai da spelare, agli altri soci che non sono in grado di opporsi alle tue voglie. E’ un affarone. Una bustarella lì, una poltrona là ed è fatta.

Lo fecero. Del grande bottino che in quegli anni passò di mano dallo Stato-Italia ad una qualche holding lussemburghese o caraibica mi preme ricordare con cordoglio la rete delle telecomunicazioni e – come non citarle – le autostrade. Decenni di volontà collettiva e di tasse se ne andarono con un clic ed una firmetta presidenziale.

D’altronde gli italiani avevano altro a cui pensare. La politica anzitutto (che non era mai stata tanto avvincente) e la destra e la sinistra e chi arrestano oggi e Antani, ovviamente, come fosse Antani. Dell’amministrazione dello Stato non c’era da preoccuparsi, tanto c’erano i “tecnici” a risolvere i problemi che quegli zozzoni dei politici avevano prodotto. I tecnici, come detto, svendevano un lotto dopo l’altro ai prestanome dei loro padroni mentre i media di massa si lavoravano l’opinione pubblica per prepararla all’entrata in scena del nuovo primo attore.

Nel breve periodo i Banksters si sarebbero presi la Banca d’Italia, la Telecom, Alitalia, le Poste e non mi dilungo, in cambio concessero le aule romane alle mafie come mai era accaduto prima di allora.

Venne il 1994 e vennero le elezioni che, se non altro, rallentarono il salasso. Giunsero a cottura ultimata, quando fu certo che il secondo ed il terzo livello definiti da Giovanni Falcone erano davvero pronti a fondersi in parlamento.

La discesa in campo di Prepuzio (mi perdonerà se, pur anziano, lo chiamo amichevolmente per nome ma mi è istintivamente simpatico) provocò l’ovazione delle tifoserie, non solo milaniste. D’altronde era merito suo e di Emilio Fede se l’italiano medio si era appassionato all’epurazione in atto alla corte di Milano. E furono anche le sue televisioni ad innestare nelle testoline dei telespettatori le nuove parole d’ordine della politica italiana: rinnovamento e bipolarismo. Meno tasse per tutti! Meno Stato! Privatizzazioni! Gli italiani ne furono entusiasti.

Ed anche i Banksters, ovviamente.

Insomma, quella che fino ad allora era stata la falange più opportunista e spregiudicatadel panorama mafio-economico italiano – proprio la più sodale al caprone espiatorio di tutti i mali Bettino Craxi – si apprestava a diventare l’establishment del Paese.

A vent’anni da quei giorni, mi pare una valutazione assolutamente di buon senso sostenere, a bocce ferme, che:

“Chiunque, a cavallo di un’esperienza bacchettona come Tangentopoli, ha messo un intrallazzone mafiosello e puttaniere a presiedere il governo ha fatto davvero un bello scherzo a questa disgraziata nazione. Che sia stato un banchiere o il popolo turlupinato, di certo non ha contribuito a risolvere il problema della corruzione nell’amministrazione della cosa pubblica italiana.”

La mia opinione – suffragata soltanto dalla logica induttiva (le prove non ci sono concesse) – è che, come sempre, sia stata una decisione dei proprietari (Banksters, USA, Mafie e Vaticano). Non dimentichiamo che, nel 1992, la loro veste padronale era del tutto ignota a quel 99,9% della massa elettorale convinto che il presidente del consiglio fosse la persona più potente su suolo italico. Oggi, marzo 2012, la percentuale di massa elettorale che ignora la natura dei suoi padroni è scesa al 99,7%. Urrà!

Anche volendo interpretare l’ascesa di Prepuzio Mussoloni come una conseguenza dell’opera della magistratura oppure come risultato di un’efficace propaganda mediatica e persino nell’ipotesi pittoresca che siano stati davvero gli elettori in pieno libero arbitrio a metterlo su quel seggiolone… in ogni caso, chiunque ce lo ha messo, ha fatto gli interessi proprio di quel cartello di banche extranazionali che a tutt’oggi regnano ancora sovrane su suolo italico.

Sono trascorsi diciassette anni, tra un Prepuzio e una Lasagna, poi ancora Prepuzio e ancora Lasagna e Antani, come se fosse Antani.

Altri diciassette anni.

Ma è memoria recente e non è questa la sede per parlarne.


Fonte 
http://www.tnepd.com 




Italiani, rassegnarsi a non valere un cazzo

Ma come: abbiamo vinto quattro mondiali, siamo la settima potenza industriale del mondo (o l’ottava? la nona? la decima? Insomma, se non in zona medaglia almeno piazzati bene), partecipiamo ai vari G7, G8, G20, i negri ci lavano i vetri ai semafori, ci siamo fatti due portaerei (una è una tascabile, ma vabbé), abbiamo le strade piene di trans brasiliani e puttane russe, tutto il mondo veste italiano (prodotto in Cina), ci stiamo pure per accattare gli F35 il caccia all’ultima moda, abbiamo inventato la mafia, la pizza e anche la radio, il nostro glorioso esercito è schierato a difesa della pace e dell’indennità di missione su mezzo globo terraqueo, il presidente Monti è un bell’uomo e parla bene inglese, le nostre donne sono così graziose che anche Sarkozy è dovuto venire a fare la spesa in Italia, chisto è o paese do sole e delcampionato più bello del mondo, una volta quando c’erano le mezze stagioni Roma dominava sull’intero mondo conosciuto, Hitler ha copiato Mussolini, facciamo lo spumante col metodo champenois, ognuno ha almeno tre telefonini e una scheda sim per ogni gestore, il nostro ex presidente del consiglio e “padre nobile” del PDL ne aveva trombate otto e aveva ancora la fila fuori dalla porta, facciamo la fila in attesa del nuovo Iphone come gli americani, abbiamo Roberto Saviano, Roberto Benigni, Fabio Fazio e Fabio Volo, non abbiamo una grande fantasia per i nomi tanto è vero che chiamiamo i bambini Roberto, Fabio o Jason, mangiamo molto e ci muoviamo pochissimo, la nostra televisione è la più bella del mondo, abbiamo il Papa a Roma, Celentano a Sanremo, Santoro su Digitale Terrestre, una spettacolare Gioia Marzocchi che va a rullo su Sky Inside, uno può andare a Roma, Firenze e Venezia, mangiare come un porco per strada, comprare borse false dai negri che hanno appena smontato dai semafori e farsi la foto tenendo come sfondo le più belle città-cimitero del mondo e poi quei negri di indiani ci arrestano i nostri uomini del reggimento San Marco, Battisti scappa in Brasile e il Brasile non ce lo restituisce e gli inglesi fanno i blitz senza nemmeno avvisarci prima?

Non sarà mica che non contiamo un cazzo?

http://www.mentecritica.net/italiani-rassegnarsi-a-non-contare-un-cazzo/cuore-di-tenebra/cazzotti/dellefragilicose/24473/

Nessun commento:

LKWTHIN

altri da leggere

LINK NEOEPI

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...