Enrico Letta ha concluso il suo tour europeo senza ottenere grandi risultati. Angela Merkel ha anzi insistito sulla necessità di proseguire il risanamento dei conti pubblici e attuare le “riforme strutturali” necessarie per aumentare la competitività dei paesi periferici.
Ma cos’è la competitività? E perché dovrebbe essere un obiettivo di politica economica? Il futuro premio Nobel Paul Krugman, in questo noto saggio di quasi 20 anni fa, proprio prendendo spunto dall’ossessione per la competitività diffusa in Europa, spiega che un paese non è assimilabile ad una singola azienda e che la crescita può basarsi sulla domanda interna, senza ossessioni mercantilistiche.
Titolo originale: Competitiveness: A dangerous obsession
Paul Krugman, Foreign Affairs; Mar/Apr 1994; 73,2; Platinum Full Text Periodicals
L’IPOTESI È SBAGLIATA
Nel giugno 1993 Jacques Delors fece una speciale presentazione ai leader delle nazioni della Comunità europea, che si incontravano a Copenaghen, sul problema della crescente disoccupazione europea. Gli economisti che studiavano la situazione europea erano curiosi di sapere quello che avrebbe detto Delors, presidente della Commissione Europea. La maggior parte di loro condividono più o meno la stessa diagnosi del problema europeo: le tasse e le regolamentazioni imposte dagli stati Europei dal complicato welfare hanno reso i datori di lavoro riluttanti nel creare nuovi posti di lavoro, mentre il relativamente generoso livello di sussidi di disoccupazione ha reso i lavoratori non disposti ad accettare quel tipo di impiego a basso salario che aiuta a tenere la disoccupazione comparativamente più bassa negli Stati Uniti. Le difficoltà valutarie associate alla salvaguardia del sistema valutario europeo di fronte ai costi della riunificazione tedesca hanno rafforzato questo problema strutturale.
È una diagnosi persuasiva, ma politicamente esplosiva, e tutti volevano vedere come Delors l’avrebbe affrontata. Avrebbe sfidato i leader europei dicendo che i loro sforzi di perseguire la giustizia economica hanno prodotto disoccupazione come sottoprodotto non intenzionale? Avrebbe ammesso che l’EMS [European Monetary System, Sistema monetario europeo, NdT] poteva essere sostenuto solamente al prezzo di una recessione e avrebbe affrontato le implicazioni di quell’ammissione per l’unione valutaria europea?
Indovinate un po’? Delors non affrontò i problemi dello stato del welfare o dell’EMS. Spiegò che la causa fondamentale della disoccupazione europea era la mancanza di competitività con gli Stati Uniti ed il Giappone e che la soluzione era un programma di investimenti in infrastrutture e alta tecnologia.
Era un’evasione deludente, ma non sorprendente. Dopo tutto, la retorica della competitività – quel modo di vedere secondo il quale, nelle parole del Presidente Clinton, ogni nazione è “come una grande società per azioni che compete nel mercato globale” – si è sparso fra gli opinion leader di tutto il mondo. Persone che si credono sofisticati conoscitori del tema danno per certo che il problema economico che sta di fronte ad ogni nazione moderna è fondamentalmente quello di competere nel mercato mondiale – che gli Stati Uniti e Giappone siano concorrenti nello stesso senso nel quale la Coca-cola compete con la Pepsi – e non sono consapevoli che si potrebbe sensatamente mettere seriamente in dubbio questa affermazione. Ogni tanto un nuovo best seller avverte il pubblico americano delle conseguenze atroci del perdere la “corsa” per il 21° secolo; (1) un’intera industria di consigli sulla competitività, “geo-economisti” e teorici della gestione del commercio è sbucata fuori a Washington. Molte di queste persone, avendo diagnosticato i problemi economici dell’America negli stessi termini di quanto Delors faceva con l’Europa, sono ora è nei cieli più alti dell’amministrazione Clinton e formulano la politica economica e commerciale per gli Stati Uniti. Quindi Delors stava usando un linguaggio non solo appropriato ma anche comodo per lui e per un vasto pubblico di tutte e due le sponde dell’Atlantico.
Sfortunatamente la sua diagnosi sui mali dell’Europa era profondamente fuorviante, e diagnosi simili negli Stati Uniti sono altrettanto fuorvianti. L’idea che le fortune economiche di un paese siano determinate principalmente dal suo successo nei mercati del mondo è un’ipotesi, non una verità necessaria; e come faccenda pratica, empirica, è un’ipotesi de plano sbagliata. Non è affatto vero, cioè, che le nazioni principali del mondo siano l’una con l’altra in un grado significativo di competizione economica, o che uno qualunque dei loro importanti problemi economici possa essere attribuito a fallimenti nel competere sul mercato mondiale. La crescente ossessione di una nazione avanzata a proposito della competitività internazionale dovrebbe essere vista non come una preoccupazione fondata, ma come una visuale che viene mantenuta nonostante la palese evidenza del contrario. E per di più è evidentemente una visione che viene difesa tenacemente, un desiderio di credere, che si riflette nella incredibile tendenza, di quelli che predicano la dottrina della competitività, a sostenere la loro tesi con un’aritmetica creativa e fallace.
Questo articolo consiste in tre punti. Nel primo sostiene che le preoccupazioni sulla competitività sono, sul piano empirico, quasi completamente infondate. Nel secondo, tenta di spiegare perché definire il problema economico come quello della competizione internazionale è nondimeno così attraente per molte persone. Infine sostiene che l’ossessione della competitività non solo è sbagliata, ma è pericolosa, e che distorce le politiche nazionali e minaccia il sistema economico internazionale. Questo ultimo problema è evidentemente il più importante dal punto di vista delle politiche pubbliche. Pensare in termini di competitività, direttamente o indirettamente, porta a politiche economiche sbagliate su una vasta serie di problemi, nazionali ed internazionali, dalla sanità al commercio.
COMPETIZIONE SENZA SENSO
La maggior parte di coloro che usa il termine “competitività” fa così senza un arrière pensée. Sembra loro ovvio che l’analogia tra un paese ed una società per azioni sia ragionevole, e che chiedersi se gli Stati Uniti siano competitivi nel mercato mondiale non sia diverso in linea di principio dal chiedersi se General Motors sia competitiva nel mercato nordamericano di minivan .
Tentare tuttavia di definire la competitività di una nazione è nei fatti molto più problematico che definire quella di una società per azioni.
La linea rossa per una società per azioni consiste letteralmente nei suoi confini: se una società per azioni non può permettersi di pagare i suoi lavoratori, i fornitori, i possessori di obbligazioni, uscirà dal business. Quindi quando noi diciamo che una società per azioni non è competitiva, intendiamo dire che la sua posizione nel mercato è insostenibile, ovvero che, se non migliora le sue prestazioni, cesserà di esistere. I Paesi invece non escono dal business. Possono essere contenti o scontenti delle loro prestazioni economiche, ma non hanno una linea rossa ben definita. Di conseguenza, il concetto di competitività nazionale è vago.
Si potrebbe supporre, ingenuamente, che la linea rossa di un’economia nazionale consista semplicemente la sua bilancia commerciale, che la competitività possa essere misurata dall’abilità di un paese di vendere all’estero più di quanto comperi. In teoria come in pratica un’eccedenza commerciale può tuttavia essere un segno di debolezza nazionale, mentre un deficit può essere un segno di forza. Per esempio, il Messico fu costretto ad enormi eccedenze commerciali negli anni ottanta per pagare gli interessi sul suo debito estero, dato che gli investitori internazionali si rifiutavano di prestargli altri soldi; ebbe grandi deficit commerciali dopo il 1990 quando gli investitori stranieri recuperarono la fiducia e nuovi capitali cominciarono ad affluire. C’è forse qualcuno che voglia indicare il Messico come una nazione estremamente competitiva durante l’epoca della crisi del debito, o descrivere quello che accade dal 1990 in poi come una perdita in competitività?
La maggior parte degli autori che si occupano del problema hanno perciò tentato di definire la competitività come combinazione di favorevoli prestazioni commerciali e di qualcos’altro. In particolare, la definizione più popolare della competitività è oggi quella definita dalle linee stabilite dal libro “Who’s Bashing Whom?” [Chi sta assalendo chi?"] di Laura D’Andrea Tyson, Presidente del Council of Economic Advisors: la competitività è “la nostra abilità di produrre beni e servizi che passano il test della competizione internazionale mentre i nostri cittadini godono di uno standard di vita insieme crescente e sostenibile.” Sembra ragionevole. Se tuttavia ci si sofferma a pensarci sopra, e si mettono a confronto i pensieri con i fatti, si scopre che questa definizione soddisfa assai poco l’orecchio.
Consideriamo, per un momento, quello che la definizione vorrebbe dire per un’economia che fa poco commercio internazionale, come gli Stati Uniti negli anni cinquanta. Per una siffatta economia, la capacità di bilanciare il suo commercio sta soprattutto nel trovare il giusto tasso di cambio. Ma siccome il commercio internazionale è un piccolo fattore nell’economia, il livello di cambio influisce poco sugli standard di vita. In un’economia con poco commercio internazionale, quindi, l’aumento degli standard di vita – e così la “competitività” secondo la definizione di Tyson – sarebbe determinata quasi completamente da fattori nazionali, in primo luogo dal tasso di crescita della produttività. La crescita di produttività nazionale, punto e a capo, e non la crescita di produttività relativamente agli altri paesi. In altre parole, per un’economia con poco commercio internazionale, “competitività” finisce per essere un modo curioso di dire “produttività”, senza avere niente a che fare con la competizione internazionale.
Ma vanno diversamente le cose quando il commercio internazionale diviene più importante, come accade per tutte le più importanti economie? Certamente le cose potrebbero cambiare. Supponiamo che un paese scopra che, anche se la sua produttività sta fortemente salendo, riesce ad esportare solo se svaluta ripetutamente la sua moneta, vendendo più a buon mercato le sue esportazioni nei mercati del mondo. Il suo standard di vita, che dipende sia dal suo potere d’acquisto nelle importazioni sia dai beni prodotti internamente, potrebbe effettivamente declinare. Nel gergo degli economisti, la crescita nazionale potrebbe essere recuperata a scapito del commercio internazionale. (2) Così la “competitività” finirebbe per spuntarla alla fine sulla competizione internazionale.
Non c’è comunque nessuna ragione di lasciare tutto questo allo stato di pura speculazione: lo si può facilmente controllare confrontandolo coi dati. Il deterioramento degli scambi internazionali sono stati uno spauracchio importante per lo standard di vita americano? Oppure il tasso di crescita del reddito netto ["Real income"] americano ha essenzialmente continuato ad uguagliare il tasso di crescita della produttività nazionale, anche se gli scambi internazionale costituiscono una porzione di reddito maggiore che in passato?
Per rispondere a questa domanda basta guardare ai dati della contabilità del reddito nazionale ["national income"] che il Dipartimento del Commercio pubblica regolarmente nella “Survey of Current Business”. La misura standard della crescita economica negli Stati Uniti è, ovviamente, il PIL reale [Real GNP], una misura che divide il valore di beni e servizi prodotti negli Stati Uniti per gli appropriati indici di prezzo per giungere ad una stima della produzione nazionale netta [real national output]. Il Dipartimento del Commercio pubblica comunque anche una cosa chiamata “command GNP.” Questo è simile al Real GNP, salvo che divide le esportazioni USA non per l’indice di prezzo delle esportazioni, ma per l’indice di prezzo delle importazioni degli Stati Uniti. Ovvero, le esportazioni sono valutate in base a quello che gli americani possono comprare con i soldi ricavati dalle esportazioni. Il “command GNP” misura dunque il volume di beni e servizi che l’economia americana può “ordinare” – il potere d’acquisto della nazione – invece che il volume del prodotto. (3) Come abbiamo appena visto, la “competitività” significa qualche cosa di diverso dalla “produttività” se e solamente se il potere d’acquisto cresce significativamente più lentamente del prodotto totale.
Bene, ecco i numeri. Nel periodo 1959-73, un periodo dalla crescita vigorosa degli standard di vita USA e dalle poche preoccupazioni sulla competizione internazionale, il “Real GNP” per ora-uomo crebbe annualmente dell’ 1,85 percento, mentre il “command GNP” orario crebbe un po’ più velocemente, dell’1,87 percento. Dal 1973 al 1990, un periodo di stagnazione degli standard di vita, la crescita del “command GNP” orario scese allo 0,65 percento. La quasi totalità (il 91 percento) di questo rallentamento fu spiegato con un ribasso nella crescita della produttività nazionale: il “Real GNP” orario crebbe solamente dello 0,73 percento.
Calcoli simili per la Comunità europea e il Giappone producono risultati simili. In ogni caso, la percentuale di crescita degli standard di vita essenzialmente uguaglia la percentuale di crescita della produttività nazionale, non la produttività relativamente ai concorrenti, ma semplicemente la produttività nazionale. Anche se il commercio mondiale è oggi più sviluppato di quanto non sia mai stato, gli standard di vita nazionali sono grandemente determinati da fattori nazionali piuttosto che dalla competizione nei mercati mondiali.
Come può succedere una cosa del genere nel nostro mondo interdipendente? Parte della risposta è che il mondo non è così interdipendente quanto probabilmente si pensi: i paesi non sono come le società per azioni. Anche oggi, le esportazioni americane sono solamente il 10 percento del valore aggiunto nell’economia (che è uguale al GNP [PIL, NdT]). Gli Stati Uniti sono cioè circa al 90 percento un’economia che produce beni e servizi per sé stessa. Per contrasto, anche la più grande società per azioni vende ben poco della sua produzione ai propri lavoratori; lo “export” della General Motors – le sue vendite a persone che non ci lavorano – è di fatto la totalità delle sue vendite, che sono più di 2,5 volte il valore aggiunto della società.
I paesi inoltre non competono l’uno con l’altro nello stesso modo delle società per azioni. Coca cola e Pepsi sono concorrenti quasi pure: solamente una frazione trascurabile delle vendite di Coca-Cola va ai lavoratori di Pepsi, solamente una frazione trascurabile dei lavoratori di Coca-cola compra prodotti della Pepsi. Quindi se Pepsi ha successo, lo fa tendenzialmente a spese della Coca-cola. Ma i maggiori paesi industriali, mentre vendono prodotti che competono l’un con l’altro, sono anche l’uno dell’altro i maggiori fornitori di importazioni utili. Se l’economia europea va bene, non ha bisogno di esserlo a spese di quella USA; effettivamente, se c’è una cosa probabile è proprio che un’economia europea che abbia successo aiuterebbe l’economia Americana fornendo un mercato più ampio e vendendogli beni di qualità superiore a prezzi più bassi.
Il commercio internazionale, inoltre, non è un gioco a somma zero. Quando sale la produttività in Giappone, il risultato principale è un aumento reale dei salari giapponesi; I salari americani o europei hanno in linea di principio la stessa probabilità di salire o di scendere, ed in pratica sembrano essere di fatto non influenzati.
Sarebbe possibile approfondire questo punto, ma la conclusione è chiara: mentre in linea di principio potrebbero esistere problemi di competizione, in pratica, sul piano empirico, le nazioni importanti del mondo non sono l’una con l’altro ad un livello significativo di competizione economica. C’è sempre, chiaramente, una rivalità di status e di potere: i paesi che crescono più velocemente vedranno crescere il loro ruolo politico. E’ quindi sempre interessante comparare i paesi. Asserire che la crescita giapponese diminuisce lo status USA è molto diverso dal dire che riduce lo standard di vita USA, come la retorica della competitività invece asserisce.
Si può chiaramente assumere la posizione che le parole dicono quello che noi vogliamo dicano, che c’è la libertà, se uno vuole, di usare il termine “competitività” come un modo poetico di dire produttività, senza davvero intendere che la competizione internazionale c’entri qualcosa. Ben pochi autori sulla competitività accetterebbero però questo modo di vedere. Questi credono che i fatti raccontino una storia molto diversa da quella che stiamo vivendo, come Lester Thurow ha scritto nel suo libro di successo, “Head to Head” [Testa a testa], in un mondo di competizione fatta di “vittorie e sconfitte” tra le economie principali. Come è possibile questa credenza?
ARITMETICA SPENSIERATA
Una delle straordinarie, sorprendenti caratteristiche della enorme letteratura sulla competitività è la tendenza ripetuta di autori estremamente intelligenti ad impegnarsi in quella che può essere forse descritta con esattezza come “aritmetica spensierata.” Si fanno affermazioni che suonano come asserzioni quantitative su grandezze misurabili, ma gli autori non presentano in realtà dati su queste grandezze, e così non ci si accorge che i numeri veri contraddicono le loro affermazioni. Oppure si presentano dati che si suppone sostengano un’asserzione, ma l’autore non si accorge che i suoi stessi numeri implicano che quello che sta affermando non può essere vero. Si trovano continuamente libri ed articoli sulla competitività che sembrano al lettore non accorto pieni di convincenti evidenze, ma che appaiono a chiunque abbia dimestichezza coi dati come stranamente, quasi misteriosamente, incapaci di maneggiare i numeri. Alcuni esempi illustrano meglio questo punto. Ecco tre casi di aritmetica spensierata, ognuno a suo modo interessante.
Deficit commerciale e perdita di posti di lavoro qualificati. In un recente articolo pubblicato in Giappone, Lester Thurow ha spiegato al suo pubblico l’importanza di ridurre l’eccedenza commerciale giapponese verso gli Stati Uniti. I salari reali USA, ha affermato, sono precipitati del sei percento durante gli anni di Reagan e Bush, e la ragione era che il deficit commerciale nei beni manifatturieri aveva costretto i lavoratori a fuoriuscire dai ben pagati lavori nelle manifatture per spostarsi negli assai meno pagati posti di lavoro nei servizi.
Non è un punto di vista originale, ed è ampiamente condiviso. Ma Thurow è stato più concreto degli altri, dando numeri reali sulla perdita di posti di lavoro e di salario. Si sono persi un milione di posti di lavoro nelle manifatture, ha sostenuto, e il lavoro nelle manifatture è pagato il 30 percento in più del lavoro nei servizi.
Entrambi i numeri meritano qualche dubbio. Il milione di posti di lavoro è troppo alto, ed il 30 percento di differenziale di salario tra manifattura e servizi è soprattutto dovuto alla differente lunghezza della settimana lavorativa, non a una differenza nel livello salariale orario. Acconsentiamo però ai numeri di Thurow. Raccontano questi la storia che ci suggerisce?
Il punto chiave è che i posti di lavoro totali USA sono più di 100 milioni. Supponiamo che un milione di lavoratori sia costretto a spostarsi dalla manifattura ai servizi perdendo di conseguenza il 30 percento del salario manifatturiero. Dato che questi lavoratori sono meno dell’1 percento della forza di lavoro USA, questo ridurrebbe il livello salariale medio USA di meno di 1/100 del 30 percento – ovvero, meno dello 0.3 percento.
Questo è un numero troppo piccolo per spiegare il 6 percento di diminuzione del salario reale, troppo piccolo di un fattore 20. Per guardare le cose in un altro modo, la perdita di salario annuale da deficit indotto da deindustrializzazione, che evidentemente Thurow ritiene essere la radice delle difficoltà economiche degli USA, sulla base dei suoi stessi numeri sarebbe all’incirca uguale a quello che gli Stati Uniti spendono in spese sanitarie in una settimana.
C’è qui un vero rompicapo. Come può succedere che una persona intelligente come Thurow, scrivendo un articolo che pretenderebbe di fornire una chiara evidenza quantitativa dell’importanza della competizione internazionale nell’economia USA, non riesca a comprendere che l’evidenza che lui propone mostra con chiarezza che non sono i problemi da lui identificati ad essere i colpevoli?
Settori ad alto valore aggiunto. Ira Magaziner e Robert Reich, due figure oggi influenti nell’Amministrazione Clinton, raggiunsero per la prima volta un largo pubblico col loro libro del 1982, “Minding America’s Business” [Gli affari in America, NdT]. Il libro proponeva una politica industriale USA, e nell’introduzione gli autori fornivano apparentemente una base quantitativa e concreta per una tale politica: Il “nostro standard di vita può crescere solamente se (i) capitale e lavoro fluiscono in modo crescente verso industrie ad alto valore aggiunto per lavoratore e (ii) manteniamo una posizione in quelle industrie che sia superiore a quella dei nostri concorrenti.”
Gli economisti erano scettici su questa idea in linea di principio. Se l’obbiettivo di avere le industrie giuste consistesse semplicemente nel passare a settori con alto valore aggiunto, perché i mercati privati non lo stavano già facendo? (4) Ci si potrebbe però liberare della domanda attribuendola semplicemente alla solita fede illimitata degli economisti nel mercato; non sostenevano forse Magaziner e Reich la loro tesi con molte evidenze tratte dal mondo reale?
Bene, “Minding America’s Business” contiene molti fatti. Una cosa che non fa mai è però quella di giustificare i criteri esposti nell’introduzione. La scelta delle industrie ad alto valore aggiunto dipende evidentemente dalla credenza degli autori che questo sia sinonimo di alta tecnologia, ma in nessun luogo nel libro si forniscono numeri che comparino i reali valori aggiunti per lavoratore nelle diverse industrie.
Valore aggiunto per lavoratore (USA 1988)
in migliaia di dollari
Sigarette 488
Raffinazione petrolio 283
Automobili 99
Acciaio 97
Aeronautica 68
Elettronica 64
Tutte le manifatture 66
Non è difficile trovare numeri del genere. Ogni biblioteca pubblica negli USA ha una copia dello Statistical Abstract degli Stati Uniti che ogni anno contiene un tabella che presenta il valore aggiunto e l’occupazione per le industrie manifatturiere degli Stati Uniti.
Tutto quel che serve è passare qualche minuto nella biblioteca con una calcolatrice per ricavare una tabella che classifichi le industrie USA in base al valore aggiunto per lavoratore. La tabella qui sopra mostra alcune voci selezionate dalle pagine 740-744 dello Statistical Abstract del 1991. Se ne ricava che le industrie americane con valore aggiunto per lavoratore veramente alto sono in settori con rapporti molto alti di capitale per lavorare, come le sigarette e la raffinazione del petrolio. (Il risultato era prevedibile: dato che le industrie capital-intensive devono ottenere un ritorno standard su grandi investimenti, devono caricare i prezzi con un maggiore margine sul costo del lavoro di quanto non facciano le industrie ad alto impiego di manodopera, cosa che implica un alto valore aggiunto per lavoratore). Fra le grandi industrie, il valore aggiunto per lavoratore tende ad essere alto nei tradizionali settori manifatturieri pesanti come l’acciaio e le auto. Settori ad alta tecnologia come l’aerospazio e l’elettronica risultano essere grosso modo in posizione intermedia.
Questo risultato non sorprende gli economisti convenzionali. Alto valore aggiunto per lavoratore si ha nei settori che sono estremamente capital-intensive, ovvero nei settori nei quali un dollaro addizionale di capitale fa aumentare di poco il valore aggiunto. In altre parole, non c’è nessun “buono premio” [free lunch, pranzo gratis, NdT]. Ma sorvoliamo su quel che si dice a proposito di come funzioni l’economia, e notiamo invece la stranezza dell’errore di Magaziner e Reich. Certamente loro non volevano promuovere una politica industriale che versasse con l’imbuto capitali e posti di lavoro nell’acciaio e nelle industrie automobilistiche, invece che in quelle ad alta tecnologia. Come possono però scrivere un intero libro dedicato alla proposta di designare come obiettivo le industrie ad alto valore aggiunto senza mai controllare quali siano queste industrie?
Costo del lavoro. Nella sua presentazione al vertice di Copenaghen, Il Primo ministro inglese John Major ha mostrato una tabella che indicava che i costi unitari del lavoro europei erano cresciuti più rapidamente di quelli negli Stati Uniti e nel Giappone. Ne deduceva che i lavoratori europei stavano autoattribuendosi un reddito al di fuori del mercato mondiale. Ma alcune settimane più tardi Sam Brittan del Financial Times ha scoperto una cosa strana nei calcoli di Major: i costi del lavoro non erano normalizzati con i tassi di cambio. Nella competizione internazionale, chiaramente, quel che conta per una ditta USA sono i costi dei suoi concorrenti esteri misurati in dollari, non in marchi o yen. I confronti internazionali dei costi del lavoro, come le tabelle che la Banca dell’Inghilterra pubblica normalmente, sono dunque sempre convertiti in una valuta comune. I numeri presentati da Major non contenevano però questa normalizzazione standard. E fu una buona cosa, per la sua presentazione, che non l’abbia fatto. Come Brittan sottolineò, i costi del lavoro europei non risultavano più alti, in termini relativi, una volta normalizzati al cambio. Questo errore è ancora più banale di quelli di Thurow o Magaziner e Reich. Come poteva John Major, con alle spalle le sofisticate risorse statistiche della Tesoreria del Regno Unito, presentare un’analisi che è precipitata nel nulla dopo aver fatto la più standard delle correzioni?
Questi esempi di aritmetica bizzarramente spensierata, scelti fra dozzine di casi simili, da parte di persone che certamente avevano le capacità e le risorse per farvi fronte, esige una spiegazione. La migliore ipotesi di lavoro è che in ogni caso l’autore o l’oratore voleva credere nell’ipotesi competitiva a tal punto da non avvertire nessuno stimolo a metterla in discussione; se si sono usati dei dati, è stato solamente per sostenere una credenza predeterminata, non per esaminarla. Ma perché molte persone sono evidentemente così ansiose di definire i problemi economici come problemi di competizione internazionale?
IL BRIVIDO DELLA COMPETIZIONE
La metafora competitiva – l’immagine di paesi che competono l’un con l’altro nei mercati del mondo nello stesso modo in cui lo fanno le società per azioni – deve molto del suo fascino alla sua apparente comprensibilità. Dire a un gruppo di uomini d’affari che un paese è come una società per azioni più in grande, significa dare loro il conforto di pensare che siano già in grado di capire le cose fondamentali. Parlare loro di concetti economici come il vantaggio comparato, significa chiedergli di imparare qualche cosa nuovo. Non è sorprendente che molti preferiscano una dottrina che offre il vantaggio di una apparente sofisticazione senza la fatica di dover pensare intensamente. La retorica della competitività è divenuta così tanto diffusa, tuttavia, per tre ragioni più profonde.
La prima è che le immagini competitive sono eccitanti, ed il brivido vende biglietti. Il sottotitolo del più importante best-seller di Lester Thurow, “Head to head“, è “La Prossima Battaglia Economica fra Giappone, Europa, e USA”; la copertina proclama che “la guerra decisiva del secolo è iniziata … e gli USA potrebbero avere già deciso di perderla.” Supponiamo che il sottotitolo avesse descritto la vera situazione: “La prossima lotta nella quale ogni grande economia riuscirà o fallirà si basa sui suoi propri sforzi, piuttosto indipendentemente da quel che faranno gli altri.” Thurow non avrebbe forse venduto un decimo delle copie?
Secondo, l’idea che le difficoltà economiche degli USA si incardinano in modo cruciale sui nostri fallimenti nella competizione internazionale fa paradossalmente apparire quelle difficoltà come più facili da risolvere. La produttività del lavoratore americano medio è determinata da un ordine complesso di fattori, la maggior parte dei quali irraggiungibile da politiche praticabili pubbliche. Se si accetta quindi la realtà che il nostro problema “competitivo” è realmente un problema di produttività nazionale puro e semplice, è improbabile riuscire ad essere ottimisti sulla possibilità di cambiamenti drammatici. Ma se ci si convince che il problema sta realmente dei fallimenti nella competizione internazionale – quelle importazioni stanno spingendo i lavoratori fuori dei posti di lavori ad alto salario, o la competizione straniera sovvenzionata dagli stati sta portando gli Stati Uniti fuori dai settori ad alto valore aggiunto – allora le risposte al malessere economico possono consistere in cose semplici come il sostegno dell’alta tecnologia e il fare i duri col Giappone.
Infine molti dei leader del mondo hanno trovato la metafora competitiva estremamente utile come strumento politico. La retorica della competitività offre giustificazioni per scelte dure o per evitarle. L’esempio di Delors a Copenaghen mostra l’utilità di metafore competitive come evasione. Delors doveva dire qualche cosa al vertice Europeo; dire qualsiasi cosa che riguardasse le vere radici della disoccupazione europea avrebbe comportato rischi politici enormi. Spostando la discussione su questioni essenzialmente irrilevanti ma apparentemente plausibili come la competitività, ha fatto guadagnare il tempo per fornire una migliore risposta (che fornì in una certa misura in Dicembre, con il libro bianco sull’economia europea, un lavoro che manteneva comunque la “competitività” nel titolo).
Per contrasto, la bene accolta presentazione del programma economico iniziale di Bill Clinton a febbraio 1993 mostrò l’utilità della retorica competitiva come motivazione per politiche difficili. Clinton propose un insieme di dolorosi tagli al deficit Federale ed aumenti delle tasse. Perché? Le ragioni per tagliare il deficit sono deludentemente poco drammatiche: il deficit sottrae fondi che potrebbero altrimenti essere investiti produttivamente, e questo provoca una costante anche se piccola deriva della crescita economica USA. Ma Clinton ha potuto invece fare un eccitante appello patriottico, chiamando la nazione ad agire subito per rendere l’economia competitiva nel mercato globale – con l’argomento che ne seguirebbero conseguenze economiche atroci se gli Stati Uniti non lo facessero.
Molte persone che sanno che la “competitività” è un concetto ampiamente privo di significato indulgono nel soddisfare la retorica competitiva perché credono che sia loro possibile imbrigliarla al servizio di buone politiche. Un’eccessiva paura dell’Unione sovietica fu usata negli anni cinquanta per giustificare la costruzione del sistema di viabilità pubblica interstatale e l’espansione dellaìistruzione in matematica e nelle scienze. Le paure ingiustificate della competizione internazionale non possono essere usate in modo simile per giustificare sforzi seri per ridurre il deficit di bilancio, ricostruire le infrastrutture, e così via?
Alcuni anni fa questa era una speranza ragionevole. Oggi l’ossessione della competitività è tuttavia giunta ad un punto tale che ha già cominciato a distorcere pericolosamente le politiche economiche.
I PERICOLI DI UN’OSSESSIONE
Pensare e parlare in termini di competitività porta a tre pericoli reali. Primo, potrebbe dare luogo ad una spesa rovinosa di danaro pubblico per migliorare la competitività USA.. Secondo, potrebbe condurre al protezionismo e a guerre commerciali. Finalmente, e più importante, potrebbe dare luogo a cattive politiche pubbliche su di uno vasto spettro di importanti problemi.
Durante gli anni cinquanta, la paura dell’Unione sovietica spinse il governo americano a spendere soldi su cose utili come le strade pubbliche e l’istruzione scientifica.
Condusse tuttavia anche a spese considerevoli su cose più dubbie come i rifugi antiatomici. Il più ovvio, anche se non il meno preoccupante, pericolo dell’ossessione crescente della competitività è che condurrà probabilmente ad una simile cattiva allocazione di risorse. Per fare un esempio, le recenti linee guida del governo per il finanziamento della ricerca hanno accentuato l’importanza di sostenere la ricerca che può migliorare la competitività internazionale degli USA. Questo esercita quanto meno una certa polarizzazione verso invenzioni che possono aiutare ditte manifatturiere che generalmente competono nei mercati internazionali, invece dei produttori di servizi che generalmente non lo fanno. Ancora: la maggior parte dei nostri posti di lavoro e del valore aggiunto ora è nei servizi, ed è stata la mancanza di produttività nei servizi, piuttosto che nei prodotti, ad essere il singolo fattore più importante nella stagnazione degli standard di vita USA.
Un rischio molto più serio è che l’ossessione della competitività porti a guerre commerciali, forse anche ad una guerra commerciale mondiale.
La maggior parte di quelli che hanno predicato la dottrina della competitività non sono stati dei protezionisti vecchio stile. Vogliono che i loro paesi vincano il gioco commerciale globale, non che se ne sottraggano. Ma cosa succede se, nonostante i suoi migliori sforzi, un paese non appaia vincente, o venga a mancargli la fiducia di poterlo fare? La diagnosi competitiva suggerisce inevitabilmente che chiudere i confini è meglio che rischiare che degli stranieri portino via posti di lavoro a salario alto in settori ad alto valore aggiunto. Come estrema conclusione, la supposta relazione sulla natura competitiva delle relazioni economiche internazionali unge le ruote di quelli che vogliono politiche “confrontative” se non apertamente protezionistiche.
Possiamo già vedere questo processo in cammino, negli Stati Uniti e in Europa. Negli Stati Uniti è degno di nota quanto rapidamente i sofisticati argomenti interventisti avanzati da Laura Tyson nei suoi lavori pubblicati abbiano dato un viatico alla ingenua affermazione del Rappresentante della U.S Trade Michael Kantor che l’eccedenza commerciale bilaterale del Giappone stava costando milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti. E la retorica commerciale del Presidente Clinton che mette l’accento sulla creazione supposta di posti di lavoro ad alto salario invece che sui vantaggi da specializzazione, ha lasciato la sua amministrazione in una posizione debole quando tentò di ribattere ai nemici del NAFTA che sostenevano che la concorrenza del lavoro messicano più conveniente avrebbe distrutto la base manifatturiera USA.
Ma il rischio forse più serio dell’ossessione della competitività è comunque il suo effetto indiretto e sottile sulla qualità del dibattito economico e sulle relative politiche. Se alti rappresentanti statali sono fortemente orientati verso una particolare dottrina economica, il loro impegno finisce per colorare inevitabilmente le politiche su tutti i temi, anche quelli che non abbiano niente a che fare con quella dottrina. E se una dottrina economica è completamente e dimostrabilmente sbagliata, l’insistenza che le discussioni facciano propria quella dottrina inevitabilmente annebbia la vista e diminuisce la qualità del dibattito sulle politiche su di una vasta serie di problemi, inclusi alcuni che sono molto lontani dalle politiche commerciali di per sé.
Consideriamo, per esempio, il problema della riforma della sanità, indubbiamente la più importante iniziativa economica dell’amministrazione Clinton, quasi certamente un ordine di grandezza più importante per gli standard di vita USA di qualsiasi altra cosa si sarebbe potuta fare sulle politiche commerciali (salvo se gli Stati Uniti provocassero una guerra mondiale commerciale). Dato che la sanità è un problema con pochi collegamenti internazionali diretti, ci si sarebbe aspettati che la si tenesse fuori da alcune distorsioni politiche dovute alla fuorviate preoccupazione sulla competitività.
Ma l’amministrazione ha messo lo sviluppo del piano sanitario nelle mani di Ira Magaziner, lo stesso Magaziner che ha sbagliato così clamorosamente il suo compito a casa nel sostenere l’intervento pubblico nelle industrie ad alto valore aggiunto. Gli scritti precedenti e le consulenze di Magaziner sulle politiche economiche si concentravano quasi completamente sul problema della competizione internazionale, sulle sue vedute su quanto riassunto nel titolo del suo libro del 1990, “The Silent War” [La Guerra Silenziosa, NdT]. La sua nomina era conseguenza di molti fattori, evidentemente non ultima la sua lunga amicizia personale con la più importante coppia [d'America, NdT]. Ancora, non è stato irrilevante che in un’amministrazione impegnata nell’ideologia della competitività, Magaziner, che ha raccomandato costantemente che le politiche industriali nazionali fossero basate sui concetti di strategia imprenditoriale da lui appresi durante i suoi anni come consulente del Boston Consulting Group, fosse considerato un esperto di politica economica.
Si può anche notare l’insolito processo con il quale è stata sviluppata la riforma della sanità. Nonostante le enormi dimensioni della task force, esperti riconosciuti nella sanità erano quasi completamente assenti, in particolare sebbene non esclusivamente economisti specializzati nella sanità, inclusi economisti con impeccabili credenziali liberal come Henry Aaronn della Brookings Institution. Di nuovo, questo è stato probabilmente il riflesso di una serie di fattori, tra i quali non è però probabilmente irrilevante la circostanza che Magaziner, fortemente impegnato nell’ideologia della competitività, non abbia in passato trovato gli economisti di professione molto comprensivi, e non fosse disposto ad avere a che fare con loro su nessun problema.
Per fare una dura ma non completamente ingiustificata analogia, un governo sposato all’ideologia della competitività è altrettanto improbabile faccia una buona politica economica quanto un governo impegnato nel creazionismo possa fare una buona politica della scienza, anche in aree che non hanno relazione diretta con la teoria dell’evoluzione.
IL CONSULENTE E’ NUDO
Se l’ossessione della competitività è fuorviante e dannosa come questo articolo sostiene, perché non ci sono più voci a dirlo? La risposta è: per una mistura di speranza e di paura.
Dal lato della speranza, molte persone assennate hanno immaginato di potersi appropriare della retorica della competitività in favore di politiche economiche desiderabili. Supponiamo di credere che gli Stati Uniti abbiano bisogno di innalzare il tasso di risparmio e di migliorare il sistema educativo per innalzare la produttività. Anche sapendo che i benefici di una maggiore produttività non hanno niente a che vedere con la competizione internazionale, perché non descrivere questo come una politica per migliorare la competitività se si pensa di potere così allargare il pubblico dei suoi sostenitori? Quella di accarezzare i pregiudizi popolari in favore di una buona causa, è una tentazione alla quale ho ceduto io stesso.
Riguardo alla paura, ci vuole o un economista molto coraggioso o molto imprudente per dire pubblicamente che una dottrina che molti, forse i più, degli opinion leader del mondo ha abbracciato, è de plano sbagliata. L’insulto maggiore sta nel fatto che molti di quegli uomini e donne pensano, usando la retorica della competitività, di dimostrare la loro sofisticazione in economia. Questo articolo può influenzare delle persone, ma non si farà molti amici.
Sfortunatamente quegli economisti che hanno sperato di appropriarsi della retorica della competitività per buone politiche economiche hanno avuto invece la loro credibilità aumentata in favore di cattive idee. E qualcuno deve mettere in evidenza quando il guardaroba intellettuale dell’imperatore non sia esattamente quel che lui pensa.
Quindi cominciamo a dire la verità: la competitività è una parola senza significato quando si applica alle economie nazionali. E l’ossessione della competitività è sbagliata e pericolosa.
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1) Si veda, per solo alcuni esempi, Laura D’Andrea Tyson ” Who’s Bashing Whom”: Conflitto commerciale in Industrie ad Alta tecnologia, Washington, Institute for International Economics, 1992; Lester C. Thurow “Head to Head”: La Prossima Battaglia Economica fra Giappone, Europa, e l’America; New York: Morrow; 1992; Ira C. Magaziner e Robert B. Reich, “Minding America’s Business”: declinio e crescita dell’Economia americana, New York: Vintage Books, 1983; Ira C. Magaziner e Mark Patinkin, “The Silent War”: dentro le battaglie del business globale che plasmano il futuro dell’America. New York: Vintage Books,, 1990; Edward N. Luttwak, “The Endangered American Dream”: Come impedire che gli Stati Uniti diventino un paese del terzo mondo e come vincere la lotta geo-economica per la supremazia industriale, New York: Simon e Schuster, 1993; Kevin P.Phillips, “Staying on Top”: Il business case per una strategia industriale nazionale, New York: Random House, 1984; Clyde V. Prestowitz, Jr., “Trading Places:” Come abbiamo permesso al Giappone di andare in testa, New York: Basic Books, 1988; William S. Dietrich, !In the Shadow of the Rising Sun”: Le radici politiche del declino economico americano, University Park: Pennsylvania State University, 1991; Jeffrey E. Garten, “A Cold Peace”: America, Giappone, Germania, e la lotta per la supremazia, New York: Times Books, 1992; e Wayne Sandholtz. et al., “The Highest Stakes”: i fondamenti economici del prossimo sistema di sicurezza, Berkeley Roundtable sull’Economia Internazionale (BRIE), Oxford University Press, 1992.
2) Un esempio può qui essere utile. Supponiamo che un paese spenda il 20 percento del suo reddito in importazioni, e che i prezzi delle sue importazioni non siano stabiliti in valuta nazionale ma estera. Allora se il paese è costretto a svalutare la sua moneta – riduce il suo valore in valuta straniera – entro il 10 percento, questo innalzerà il prezzo del paniere che il paese sta spendendo del 20 percento, elevando così l’indice dei prezzi complessivo del 2 percento. Anche se la produzione nazionale non è cambiata, il vero reddito del paese sarà precipitato perciò del 2 percento. Se il paese deve svalutare ripetutamente di fronte ad una pressione competitiva, la crescita del reddito reale rimarrà costantemente in ritardo rispetto alla crescita reale della produzione.
E’ comunque importante notare che la dimensione di questo ritardo non dipende solo dall’ammontare della svalutazione ma dalla quota di importazione nelle spese. Una svalutazione del 10 percento del dollaro rispetto allo yen non riduce il reddito reale degli Stati Uniti del 10 percento – infatti, riduce solamente approssimativamente il reddito reale degli Stati Uniti solo dello 0.2 percento perché solo circa il 2 percento del reddito Americano è speso in beni prodotti in Giappone.
3) Nell’esempio nella nota precedente, la svalutazione non avrebbe effetto sul GNP reale, ma il “command GNP” sarebbe precipitato del due percento. La scoperta che in pratica il “command GNP” è cresciuto all’incirca velocemente come il GNP reale spinge a dire che eventi come il caso ipotetico della nota sono senza pratica importanza.
4) “valore aggiunto” ha un significato preciso, standard, nella contabilità del reddito nazionale: il valore aggiunto di una ditta è il valore in dollari delle sue vendite, meno il valore in dollari dei contributi che acquista dalle altre ditte, e come tale è misurato facilmente. Alcune persone che usano il termine, probabilmente ignorano questa definizione e semplicemente usano “alto valore aggiunto” come sinonimo di “desiderabile.”
Scritto da: Oltrelacoltre
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