Di Luca Fiorani - Maggio 2012
Spesso sento dire: “perché studi filosofia? La filosofia è inutile!”. Occorre in primo luogo una precisazione. Dobbiamo già precisare se con “la filosofia” dobbiamo intendere la filosofia in quanto tale, o la filosofia in quanto studiata nelle università. Contuttociò, concluderemo col notare che le critiche ai due diversi modi in cui abbiamo precisato che debba intendersi la filosofia in questo contesto, sono in realtà una, e una identica critica.
Partiamo dalla critica che corrisponde alla filosofia
intesa come oggetto di studio nelle università. “La filosofia non è professionalizzante, non è in grado di inserirti
nel mondo del lavoro, non ti porta da nessuna parte: le fallimentari
prospettive economiche sono prova manifesta della sua inutilità”. Abbiamo
riassunto così, in maniera consapevolmente stringata e un poco superficiale, il
peculiare approccio del detrattore di primo tipo.
Ora vediamo il caratteristico approccio del detrattore di
secondo tipo: “La filosofia, parlando
seriamente, senza mascheramenti o celie, non è che il tripudio del vaniloquio,
il trionfo dell’inconcludenza, una schiacciante inutilità che non può che
ripiegare su se stessa, vinta dalla sua propria loquacità millantatrice: una
congerie di vacue ciarle di fanfaroni che, nella loro astrusità convulsa, non
portano a nessun risultato, e si risolvono in un parossistico e in definitiva
stomachevole diallele.”
Dunque la filosofia, per entrambi i denigratori, non
porta da nessuna parte, a nessun risulto concreto, palpabile, materiale, in
ultima analisi, vero. Sì, vero. Via, non
vorremo veramente negare che la vita vera sia quella di cui parlano i
due nostri signori, loro, realisti tutti d’un pezzo, che hanno ben compreso che
la cinica attenzione alla materialità è il vero modo di guardare alle
cose. Loro, del resto, sanno perfettamente che il cinico è "una canaglia
di vista difettosa che vede le cose come sono" (Ambrose Bierce, Il
dizionario del diavolo, 1911). Saranno consci del fatto che “la vita vera
è questa” è già in sé una asserzionefilosoficamente impegnativa, foriera
di gravose conseguenze? No, ma loro mettono la filosofia in non cale: a chi
vuoi che importi del peso di un’asserzione come quella? Eppure i Latini
dicevano: “adfirmanti incumbit probatio”. Va beh, tutte chiacchiere inani,
prive di un vero valore. Che cosa
ha veramente peso? Che cosa porta a risultati veri? (Quivi,
è lapalissiano, si realizza la sovrapposizione dei due tipi. Sovrapposizione
che, per certi versi, come implicitamente data, doveva già presentirsi: indi i
detrattori, che credevamo due, sono in realtà uno e lo stesso) La pecunia, il grande denaro, amatissimo e
ben poco vile Ens verissimum, il nostro più grande bene, capace di
soddisfare ogni richiesta, o, diciamo più propriamente, non una richiesta in
concreto, ma larichiesta in abstracto. E certo, ho ben
detto: la richiesta, quella vera. Ora però ci domandiamo: è la richiesta autenticamente nostra? Qual è la
natura di tale autenticità? Se, invece, non è nostra, in che senso e in che
misura è inautentica? Se è inautentica, donde viene la sua non-autenticità? Ma
no, non domandiamocelo: d’altro canto, quid refert? A cosa porta di vero,
che utilitàvera c’è in questo? Tanto
affaticarsi per nulla di vero, pretesa vana che non serve a niente,
che è in-utile. Del resto questo stesso, se non è uno stoltiloquio,
non fa che tradire un tipico sconclusionato verbalismo. E della filosofia che
vogliamo dire? Un filosofo, uno dei tanti garuli e pretenziosi smargiassi, ha
abbozzato una risposta a questo proposito: “è
quanto mai giusto dire che la filosofia non serve a niente, l’errore è credere
che con questo ogni giudizio sulla filosofia sia concluso. In realtà resta
da fare una piccola aggiunta sotto forma di domanda: se cioè, posto che noi non possiamo farcene
nulla, non sia piuttosto la filosofia che è in grado di fare qualcosa di noi,
se appena ci impegniamo in essa.” (Martin
Heidegger, Introduzione alla metafisica, 1953). Come!? La
filosofia non serve a niente, tuttavia ineludibilmente è lei stessa a
fare qualcosa di noi? Cos’è, un altro vicolo cieco? Un altro deleterio
lazzo? Sì, forse è proprio l’affermazione della feconda indispensabilità dell’in-utile,
plausibilmente non come chimerico antidoto o rimedio alle logiche imperanti
dell’utile verità, ma come desiderio di elevazione alla consapevolezza.
Luca Fiorani
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