Che cosa pensi
della vicina di casa, che pure sembra una persona tanto gentile e a modo, se ti
raccontano che l’hanno vista dare un calcio a un gattino, o a un cagnolino?
Magari non ci credi del tutto – la fonte può sbagliarsi o
esagerare – ma ti resta un dubbio: che sia una persona del tutto diversa da
quel che sembra(va)?
Questo era uno dei metodi che gli
attivisti della Stasi (la
“Staatssicherheit”, la polizia segreta della Repubblica democratica tedesca)
utilizzavano per attivare il sospetto di vicini di casa e
“guidare” così la loro percezione selettiva in una direzione utile a renderli disponibili, in seguito, a dare
informazioni sulle persone sospette al sistema.
Una volta convinto, grazie a pettegolezzi pilotati, che il tale è solo
apparentemente così normale ma nasconde strane abitudini, non ti stupisce che la polizia
se ne interessi e chieda la tua collaborazione per tenerla d’occhio.
Insinuare, raccontando comportamenti criticabili, osservati o presunti tali, mette in giro leggende che possono
recare danni veri e propri alle persone di cui si “sparla”.
Nel riportare
pettegolezzi malevoli si partecipa alla demolizione morale delle persone:
eppure ci pare
una attività così quotidiana, banale, innocente. Un gioco sociale antichissimo, che ha il pregio di far sentire bene, sul
momento, chi lo fa, comunicando implicitamente: “noi si che siamo brave persone e che ci capiamo!”. Da un punto di vista antropologico anzi, nella notte dei tempi, il
pettegolezzo pare sia stato un’attività necessaria: per confermarci a
vicenda, in gruppi umani circoscritti, quali siano i valori vigenti e
condivisi e se sia il caso di stare in guardia verso chi non li rispetta. Del
tema del condividere le conoscenze sul “chi fa che cosa con chi”,
nella lontana e lunga epoca preistorica in cui la nostra specie è passata al
linguaggio, se ne occupa un interessante studio
antropologico-linguistico.
Qui invece
intendo focalizzare la nostra attenzione sul fenomeno del parlar
male oggi, abitudine quotidiana molto meno inoffensiva di quel che
si creda.
Ci sono culture
e ambienti in cui il farlo ci autosqualifica: chi ci sente parlare così di
persone assenti coglie la nostra mancanza di sensibilità e fairness, la nostra negatività e
meschinità, e probabilmente prenderà le distanze da noi. Inoltre, dato che
nel farlo si utilizzano tipicamente gli “errori fondamentali di attribuzione”
di cui abbiamo già parlato altrove, distribuendo le nostre malevoli etichette alla
persona di cui sparliamo, comunichiamo di non essere in grado di osservare una situazione
in modo distaccato ed equanime.
Se poi,
nello sparlare, senza saperlo stiamo attribuendo
caratteristiche negative a una persona che è cara o vicina ad uno degli
astanti, l’idea di noi che gli altri si faranno ci risulterà ancora più imbarazzante – se mai ce la
dicessero. Il vuoto intorno è un esito più probabile.
Attenzione,
dunque alla malevolenza: danneggia gli altri e anche chi la
fa. Ma come fare se sentiamo il bisogno di esprimere critiche?
Ci servirà solo
con chi le deve conoscere, per tener conto di quel che pensiamo, e quindi
col diretto interessato, e non con colleghi presi a caso in
corridoio. In ogni caso almeno possiamo allenarci a farle evitando accuse e
l’affibbiare presunte caratteristiche: (“il tale è inaffidabile!”), ma
descrivendo la nostra esperienza concreta (“quando gli ho
affidato…”), come ci siamo sentiti (“mi sono sentito arrabbiato/deluso…”),
e la nostra aspettativa (“dato che mi aspettavo invece…”).
In tal modo
parliamo di noi, di quel che ci è capitato in concreto e di quel che preferiamo
ottenere, della nostra verità, quella che sentiamo in diretta, e
forse riusciamo a non danneggiare nessuno.
Se la gente parla male di te alle tue spalle vuol dire che
sei sempre un passo avanti!
Nessun commento:
Posta un commento